domenica 13 giugno 2010

LUIGI PIRANDELLO

Disambiguazione – Se stai cercando altri significati per Pirandello, vedi Pirandello (disambigua).
« Per il suo coraggio e l'ingegnosa ripresentazione dell'arte drammatica e teatrale »
(Motivazione del Premio Nobel)

Luigi Pirandello
Nobel per la letteratura 1934
Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936) fu un drammaturgo, scrittore e poeta italiano, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1934.
Indice [nascondi]
1 Biografia
1.1 La famiglia
1.2 I primi anni
1.3 Il giovane laureato
1.4 Il crollo finanziario
1.5 Il successo
1.6 Pirandello e la politica
1.6.1 Rapporti con il Fascismo
1.6.2 Il rifugio di Soriano nel Cimino
1.7 Dalla Grande Guerra al Nobel
1.8 La morte e il testamento
2 Il pensiero
2.1 L'umorismo
2.2 La crisi dell'io
2.3 Il contrasto tra vita e forma
2.4 Il relativismo psicologico
2.5 L'incomunicabilità
2.6 La reazione al relativismo
2.6.1 Reazione passiva
2.6.2 Reazione ironico – umoristica
2.6.3 Reazione drammatica
3 Teatro
3.1 Prima Fase - Teatro Siciliano
3.2 Seconda fase - Il teatro umoristico
3.3 Terza fase - Il teatro nel teatro
3.4 Il teatro dei miti
4 Romanzi
5 Novelle
6 Poesia
7 Pirandello al cinema
8 Note
9 Bibliografia
10 Voci correlate
11 Altri progetti
12 Collegamenti esterni
Biografia [modifica]

« Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco "Kaos". »
(Luigi Pirandello)
La famiglia [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Biografia del figlio cambiato.
Pirandello, figlio di Stefano e Caterina Ricci Gramitto, appartenenti a famiglie di agiata condizione borghese, dalle tradizioni risorgimentali, nacque nel 1867 in località Càvusu vicino Girgenti, luogo che al momento della sua nascita aveva cambiato la sua denominazione originaria in "Caos".
Nell'imminenza del parto che doveva avvenire a Porto Empedocle, per un'epidemia di colera che stava colpendo la Sicilia, il padre Stefano aveva deciso di trasferire la famiglia in una isolata tenuta di campagna per evitare il contatto con la pestilenza. Porto Empedocle, prima di chiamarsi così, era una borgata (Borgata Molo) di Girgenti (l'odierna Agrigento).
Quando nel 1853 si decise che la borgata divenisse comune autonomo «La linea di confine fra i due comuni venne fissata all'altezza della foce di un fiume essiccato che tagliava in due la contrada chiamata "u Càvuso" o "u Càusu" (pantaloni)...Questo Càvuso apparteneva metà al nuovo comune di Porto Empedocle e l'altra metà al Comune di Girgenti...A qualche impiegato dell'ufficio anagrafe parse che non era cosa [che si scrivesse che qualcuno fosse nato in un paio di pantaloni] e cangiò quel volgare "Càusu" in "Caos"».[1]
Il padre, Stefano Pirandello, aveva partecipato tra il 1860 e il 1862 alle imprese garibaldine; aveva sposato nel 1863 Caterina, sorella di un suo commilitone, Rocco Ricci Gramitto.
Il nonno materno di Luigi, Giovanni Ricci Gramitto, era stato tra gli esponenti di spicco della rivoluzione siciliana del 1848-49 ed escluso dall'amnistia al ritorno del Borbone era fuggito in esilio a Malta dove era morto un anno dopo, nel 1850, a soli 46 anni.[2]
Il nonno paterno, Andrea, era stato un armatore e ricco uomo d'affari di Pra', ora quartiere di Genova. La famiglia di Pirandello viveva in una situazione economica agiata, grazie al commercio e all'estrazione dello zolfo.
I primi anni [modifica]


La casa natale di Pirandello, in località Caos
L'infanzia di Pirandello non fu sempre serena ma, come lui stesso racconterà nel 1935, caratterizzata anche dalla difficoltà di comunicare con gli adulti e in specie con i suoi genitori, in modo particolare con il padre. Questo lo stimolò ad affinare le sue capacità espressive e a studiare il modo di comportarsi degli altri per cercare di corrispondervi al meglio.
Fin da ragazzo soffriva d'insonnia e dormiva abitualmente solo tre ore per notte. [3]
Il giovane Luigi era molto devoto alla Chiesa Cattolica grazie all'influenza che ebbe su lui una serva di famiglia, che lo avvicinò alle pratiche religiose, ma inculcandogli anche credenze superstiziose fino a convincerlo della paurosa presenza degli spiriti. La chiesa e i riti della confessione religiosa gli permettevano di accostarsi ad un'esperienza di misticismo, che cercherà di raggiungere in tutta la sua esistenza.
Si allontanò dalle pratiche religiose per un avvenimento apparentemente di poco conto: un prete aveva truccato un'estrazione a sorte per far vincere un'immagine sacra al giovane Luigi; questi rimase così deluso dal comportamento inaspettatamente scorretto del sacerdote che non volle più avere a che fare con la Chiesa, praticando una religiosità del tutto diversa da quella ortodossa.
Dopo l'istruzione elementare impartitagli da maestri privati, andò a studiare in un istituto tecnico e poi al ginnasio. Qui si appassionò subito alla letteratura. A soli undici anni scrisse la sua prima opera, "Barbaro", andata perduta. Per un breve periodo, nel 1886, aiutò il padre nel commercio dello zolfo, e poté conoscere direttamente il mondo degli operai nelle miniere e quello dei facchini delle banchine del porto mercantile.
Iniziò i suoi studi universitari a Palermo nel 1886, per recarsi in seguito a Roma, dove continuò i suoi studi di filologia romanza che poi, anche a causa di un insanabile conflitto con il rettore dell'ateneo capitolino, dovette completare su consiglio del suo maestro Ernesto Monaci, a Bonn[4] (1889).
A Bonn, importante centro culturale di quei tempi, Pirandello seguì i corsi di filologia romanza ed ebbe l'opportunità di conoscere grandi maestri come Franz Bücheler, Hermann Usener e Richard Förster. Si laureò nel 1891 con una tesi sulla parlata agrigentina "Foni ed evoluzione fonetica del dialetto di Girgenti" (Laute und Lautentwicklung der Mundart von Girgenti), in cui descrisse il dialetto della sua città e quelli dell'intera provincia, che suddivise in diverse aree linguistiche.
Il tipo di studi gli fu probabilmente di fondamentale aiuto nella stesura delle sue opere, dato il raro grado di purezza della lingua italiana utilizzata.
Il giovane laureato [modifica]
Nel 1892 Pirandello si trasferì a Roma, dove poté mantenersi grazie agli assegni mensili inviati dal padre. Qui conobbe Luigi Capuana che lo aiutò molto a farsi strada nel mondo letterario e che gli aprì le porte dei salotti intellettuali dove ebbe modo di conoscere giornalisti, scrittori, artisti e critici.
Nel 1894, a Girgenti, Pirandello sposò Maria Antonietta Portulano, figlia di un ricco socio del padre. Questo matrimonio probabilmente concordato soddisfaceva anche gli interessi economici della famiglia di Pirandello. Nonostante ciò tra i due coniugi nacque veramente l'amore e la passione. Grazie alla dote della moglie, la coppia godeva di una situazione molto agiata, che le permise di trasferirsi a Roma.
Nel 1895, a completare l'amore tra gli sposi, nacque il primo figlio: Stefano, a cui seguirono due anni dopo, Rosalia (1897) e nel 1899 Fausto.
Il crollo finanziario [modifica]
Nel 1904, un allagamento e una frana in una miniera di zolfo del padre, nella quale era stata investita parte della dote di Antonietta, e da cui anche Pirandello e la sua famiglia traevano un notevole sostentamento, li ridusse sul lastrico[5].
Questo avvenimento accrebbe il disagio mentale, già manifestatosi, della moglie di Pirandello, Antonietta. Ella andava sempre più spesso soggetta a crisi isteriche, causate anche dalla gelosia, a causa delle quali o Antonietta rientrava dai genitori in Sicilia, o era Pirandello a esser costretto a lasciare la casa.
Solo diversi anni dopo, nel 1919, egli, ormai disperato, acconsentì che Antonietta fosse ricoverata in un ospedale psichiatrico[5]. La malattia della moglie portò lo scrittore ad approfondire, portandolo ad avvicinarsi alle nuove teorie sulla psicanalisi di Sigmund Freud, lo studio dei meccanismi della mente e ad analizzare il comportamento sociale nei confronti della malattia mentale.
Spinto dalle ristrettezze economiche e dallo scarso successo delle sue prime opere letterarie, e avendo come unico impiego fisso la cattedra di stilistica all'Istituto superiore di magistero femminile (che tenne dal 1897 al 1922)[5], lo scrittore dovette impartire lezioni private[5] di italiano e di tedesco, dedicandosi anche intensamente al suo lavoro letterario. Dal 1909 iniziò anche una collaborazione con il Corriere della Sera.
Il successo [modifica]
Il suo primo grande successo fu merito del romanzo Il fu Mattia Pascal, pubblicato nel 1904 e subito tradotto in diverse lingue. La critica non dette subito al romanzo il successo che invece ebbe tra il pubblico. Numerosi critici non seppero cogliere il carattere di novità del romanzo, come d'altronde di altre opere di Pirandello. Perché Pirandello arrivasse al successo si dovette aspettare il 1922, quando si dedicò totalmente al teatro.
Pirandello e la politica [modifica]
L'idea politica di fondo di Pirandello era legata al patriottismo risorgimentale. Una sua lettera apparsa nel 1915 sul giornale di Sicilia testimonia gli ideali patriottici della famiglia, proprio nei primi mesi dallo scoppio della Grande Guerra.
Nella sua vita condivise alcune delle idee dei giovani Fasci siciliani e del socialismo; ne I vecchi e i giovani si nota come l'idea politica di Pirandello era stata oscurata dalla riflessione "umoristica" sulla vita.
Per Pirandello, i siciliani avevano subìto le peggiori ingiustizie dai vari governi italiani: è questa l'unica idea forte che ci presenta.
Rapporti con il Fascismo [modifica]
Nel 1924 il quotidiano L'Impero pubblica un telegramma inviato da Pirandello a Mussolini:
« Eccellenza, sento che questo è per me il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se l'E.V. mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò come massimo onore tenermi il posto del più utile e obbediente gregario. Con devozione intera »
Nel 1925 Pirandello è tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto da Giovanni Gentile. L'adesione di Pirandello al Fascismo fu alquanto imprevedibile, sorprendendo anche i suoi più stretti amici.
La motivazione più credibile per spiegare tale scelta è che il fascismo lo riconduceva a quegli ideali patriottici e risorgimentali di cui Pirandello era convinto sostenitore, anche per le radici garibaldine del padre. Pirandello vedeva nel Fascismo la prima idea originale post-risorgimentale, che doveva essere la "forma" nuova per l'Italia e divenire modello per l'Europa.
Un'altra motivazione molto più pragmatica è la fondazione della nuova compagnia teatrale: l'iscrizione al partito serviva per poter ricevere il sostegno governativo e le relative sovvenzioni economiche.
In ogni caso non sono infrequenti suoi scontri violenti con autorità fasciste e dichiarazioni aperte di apolicità: « Sono apolitico: mi sento soltanto uomo sulla terra. E, come tale, molto semplice e parco; se vuole potrei aggiungere casto...». [6] Clamoroso è il gesto del 1927, narrato da Corrado Alvaro (e riportato da G. Giudice nel suo saggio), in cui Pirandello a Roma strappa la sua tessera del partito davanti agli occhi esterrefatti del Segretario Nazionale. [7]
Nel 1935, in nome dei suoi ideali patriottici, partecipa alla raccolta dell' "oro per la patria" donando la medaglia del premio Nobel ricevuto l'anno prima.[8] La critica fascista non esaltava le opere di Pirandello considerandole non conformi agli ideali fascisti: vi si vedeva una certa insistenza e considerazione di quella borghesia altolocata che il fascismo formalmente condannava come corrotta e decadente. Gli arzigogoli filosofici dei personaggi dei drammi borghesi pirandelliani erano considerati quanto di più lontano dall'attivismo fascista.
Anche dopo l'attribuzione del Nobel parecchi lavori furono accusati dalla stampa di regime di disfattismo tanto che anche Pirandello finì tra i "controllati speciali" dell'OVRA.[9]
Il rifugio di Soriano nel Cimino [modifica]
Luigi Pirandello amava trascorrere ampi periodi dell'anno nella quiete di Soriano nel Cimino (VT) una amena e bella cittadina ricca di monumenti storici ed immersa nei boschi del Monte Cimino. In particolare Pirandello rimase affascinato dalla maestosità e dalla quiete di uno stupendo castagneto sito nella località di "Pian della Britta", a cui egli volle dedicare una omonima poesia, che oggi è scolpita su una lapide di marmo posta proprio in tale località.
Pirandello ambientò a Soriano nel Cimino (citando luoghi, località e personaggi realmente esistiti) anche due tra le sue più celebri novelle "Rondone e Rondinella" e "Tomassino ed il filo d'erba". A Soriano nel Cimino, è rimasto vivo ancora oggi il ricordo di Pirandello a cui sono dedicati monumenti, lapidi e strade.
Dalla Grande Guerra al Nobel [modifica]
La guerra fu un'esperienza dura per Pirandello; il figlio Stefano venne infatti imprigionato dagli austriaci, e, una volta rilasciato, ritornò in Italia gravemente malato e con i postumi di una ferita. Durante la guerra, inoltre, le condizioni psichiche della moglie si aggravarono al punto da rendere inevitabile il ricovero in manicomio (1919).
Dopo la guerra, lo scrittore si immerse in un lavoro frenetico, dedicandosi soprattutto al teatro. Nel 1925 fondò la "Compagnia del teatro d'arte" con due grandissimi interpreti dell'arte pirandelliana: Marta Abba e Ruggero Ruggeri. Con questa compagnia cominciò a viaggiare per il mondo: le sue commedie vennero rappresentate anche nei teatri di Broadway. Nel 1929 gli venne conferito il titolo di Accademico d'Italia. Nel giro di un decennio arrivò ad essere il drammaturgo di maggior fama nel mondo, come testimonia il premio Nobel per la letteratura ricevuto nel 1934.
La morte e il testamento [modifica]
Grande appassionato di cinematografia, mentre assisteva a Cinecittà alle riprese di un film tratto dal suo "Il fu Mattia Pascal", si ammalò di polmonite. Aveva già subito due attacchi di cuore, e il suo corpo, ormai segnato dal tempo e dagli avvenimenti della vita, non sopportò oltre. Pirandello morì lasciando incompiuto un nuovo lavoro teatrale, I giganti della montagna.
Il regime fascista avrebbe voluto esequie di Stato. Vennero invece rispettate le sue volontà espresse nel testamento: "Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi"[5]. Per sua volontà il corpo fu cremato, per evitare postume consacrazioni cimiteriali e monumentali. Le sue ceneri furono sparse per il "Caos" (la sua tenuta, nell'omonima contrada).
Gli è stato dedicato un asteroide, 12369 Pirandello.[10]
Il pensiero [modifica]



Pirandello fotografato negli anni venti
« ... davanti agli occhi di una bestia crolla come un castello di carte qualunque sistema filosofico. »
(L. Pirandello, dai Foglietti[11])
Pirandello si occupò di questioni teoriche fin da giovane. Si avvicinò alle teorie dello psicologo Alfred Binet. Pubblicò nel 1908 i saggi Arte e Scienza e L'umorismo caratterizzati da un'esposizione di stile colloquiale, molto lontana dal consueto discorso filosofico. Le due opere sono espressione di un'unica maturazione artistica ed esistenziale che ha coinvolto lo scrittore siciliano all'inizio del '900 e che vede come centrale proprio la poetica dell'umorismo.
L'umorismo [modifica]
Nel saggio "L'umorismo" Pirandello distingue il comico dall'umorismo. [12]Il primo, definito come "avvertimento del contrario", nasce dal contrasto tra l'apparenza e la realtà. Nel saggio citato Pirandello ce ne fornisce un esempio:
« Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. "Avverto" che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica. Il comico è appunto un "avvertimento del contrario" »
(L. Pirandello, L'umorismo, Parte seconda [13])
L'umorismo, invece, nasce da una considerazione meno superficiale della situazione:
« Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente, s'inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico »
(L. Pirandello, L'umorismo, Parte seconda [13])
Quindi, mentre il comico genera quasi immediatamente la risata perché mostra subito la situazione evidentemente contraria a quella che dovrebbe normalmente essere, l'umorismo nasce da una più ponderata riflessione che genera una sorta di compassione da cui si origina un sorriso di comprensione. Nell'umorismo c'è il senso di un comune sentimento della fragilità umana da cui nasce un compatimento per le debolezze altrui che sono anche le proprie. L'umorismo è meno spietato del comico che giudica in maniera immediata.
« non ci fermiamo alle apparenze, ciò che inizialmente ci faceva ridere adesso ci farà tutt'al più sorridere. »
(Luigi Pirandello)
La crisi dell'io [modifica]
L'analisi dell'identità condotta da Pirandello lo portò a formulare la teoria della crisi dell'io. In un articolo del 1900 scrisse:
« Il nostro spirito consiste di frammenti, o meglio, di elementi distinti, più o meno in rapporto tra loro, i quali si possono disgregare e ricomporre in un nuovo aggregamento, così che ne risulti una nuova personalità, che pur fuori dalla coscienza dell'io normale, ha una propria coscienza a parte, indipendente, la quale si manifesta viva e in atto, oscurandosi la coscienza normale, o anche coesistendo con questa, nei casi di vero e proprio sdoppiamento dell'io. [...] Talché veramente può dirsi che due persone vivono, agiscono a un tempo, ciascuna per proprio conto, nel medesimo individuo. Con gli elementi del nostro io noi possiamo perciò comporre, costruire in noi stessi altre individualità, altri esseri con propria coscienza, con propria intelligenza, vivi e in atto. »
Paradossalmente, il solo modo per recuperare la propria identità è la follia, tema centrale in molte opere, come l'Enrico IV o come Il berretto a sonagli, nel quale Pirandello inserisce addirittura una ricetta per la pazzia: dire sempre la verità, la nuda e cruda e tagliente verità, infischiandosene dei riguardi e delle maniere, delle ipocrisie e delle convenzioni sociali. Questo comportamento porterà presto all'isolamento da parte della società e, agli occhi degli altri, alla pazzia.
Abbandonando le convenzioni sociali e morali l'uomo può ascoltare la proprià interiorità e vivere nel mondo secondo le proprie leggi, cala la maschera e percepisce se stesso e gli altri senza dover creare un personaggio, è semplicemente persona. Esemplare di tale concezione è l'evoluzione di Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila.
Il contrasto tra vita e forma [modifica]
Pirandello svolge una ricerca inesausta sull'identità della persona nei suoi aspetti più profondi, dai quali dipendono sia la concezione che ogni persona ha di sé, sia le relazioni che intrattiene con gli altri. Egli mette in evidenza il contrasto esistente tra la fluidità inarrestabile della vita, che è diversa di momento in momento e che presenta contemporaneamente aspetti molteplici ed anche contraddittori, e l'esigenza di cristallizzare quel flusso continuo in immagini certe, stabili, alle quali ancorare la conoscenza che si ha, o meglio si crede di avere, di sé e degli altri.
Questa riflessione, che si rispecchia nelle varie opere con accenti ora lievi ora gravi e tragici, è stata, ad opera soprattutto dello studioso Adriano Tilgher interpretata come un sistema filosofico basato sul contrasto tra la Vita e la Forma.
Il relativismo psicologico [modifica]
Dal contrasto tra la vita e la forma nasce il relativismo psicologico che si esprime in due sensi: orizzontale, ovvero nel rapporto interpersonale, e verticale, ovvero nel rapporto che una persona ha con se stessa.
Gli uomini nascono liberi ma il Caso interviene nella loro vita precludendo ogni loro scelta: l'uomo nasce in una società precostituita dove ad ognuno viene assegnata una parte secondo la quale deve comportarsi.
Ciascuno è obbligato a seguire il ruolo e le regole che la società impone, anche se l'io vorrebbe manifestarsi in modo diverso: solo per l'intervento del caso può accadere di liberarsi di una forma per assumerne un'altra, dalla quale non sarà più possibile liberarsi per tornare indietro, come accade al protagonista de Il fu Mattia Pascal.
L'uomo dunque non può capire né gli altri né tanto meno se stesso, poiché ognuno vive portando - consapevolmente o, più spesso, inconsapevolmente - una maschera dietro la quale si agita una moltitudine di personalità diverse e inconoscibili.
Queste riflessioni trovano la più esplicita manifestazione narrativa nel romanzo Uno, nessuno e centomila:
Uno: perché ogni persona crede di essere un individuo unico con caratteristiche particolari;
Centomila perché l'uomo ha, dietro la maschera, tante personalità quante sono le persone che ci giudicano;
Nessuno perché, paradossalmente, se l'uomo ha 100.000 personalità invero non ne possiede nessuna, nel continuo cambiare non è capace di fermarsi nel suo vero "io".
L'incomunicabilità [modifica]
Il relativismo conoscitivo e psicologico su cui si basa il pensiero di Pirandello si scontra con il conseguente problema dell' incomunicabilità tra gli uomini: dato che ogni persona ha un proprio modo di vedere la realtà e dunque una propria verità, non può esistere una comunicazione che abbia basi oggettive e condivise. L'incomunicabilità produce quindi un sentimento di solitudine ed esclusione dalla società e persino da se stessi, poiché proprio la crisi e frammentazione dell'io crea diversi io discordanti ("Il nostro spirito consiste di frammenti") che non risolvono la frammentazione se non facendo scoprire al personaggio di non essere poi nessuno.
Il personaggio di conseguenza avverte un sentimento di estraneità dalla vita che lo fa sentire forestiere della vita[14], nonostante la continua ricerca di un senso dell'esistenza e di un'identificazione di un proprio ruolo, che vada oltre la maschera, o le diverse e innumerevoli maschere, che compaiono al prospetto della società come delle persone più vicine.
Il tema dell'incomunicabilità è ben espresso dal personaggio di Vitangelo Moscarda del romanzo Uno, nessuno e centomila e dalla commedia Sei personaggi in cerca di autore.
La reazione al relativismo [modifica]
Reazione passiva [modifica]
L'uomo accetta la maschera, che lui stesso ha messo o con cui gli altri tendono a identificarlo. Ha provato sommessamente a mostrarsi per quello che lui crede di essere ma, incapace di ribellarsi o deluso dopo l'esperienza di vedersi attribuita una nuova maschera, si rassegna. Vive nell'infelicità, con la coscienza della frattura tra la vita che vorrebbe vivere e quella che gli altri gli fanno vivere per come essi lo vedono. Accetta alla fine passivamente il ruolo da recitare che gli si attribuisce sulla scena dell'esistenza. Questa è la reazione tipica delle persone più deboli come si può vedere nel romanzo Il fu Mattia Pascal.
Reazione ironico – umoristica [modifica]
Il soggetto non si rassegna alla sua maschera però accetta il suo ruolo con un atteggiamento ironico, aggressivo o umoristico. Ne fanno esempio varie opere di Pirandello come: Pensaci Giacomino, Il gioco delle parti e La patente. Il personaggio principale di quest'ultima opera, Rosario Chiàrchiaro, è un uomo cupo, vestito sempre in nero che si è fatto involontariamente la nomea di iettatore e per questo è sfuggito da tutti ed è rimasto senza lavoro. Il presunto iettatore non accetta l'identità che gli altri gli hanno attribuito ma comunque se ne serve. Va dal giudice e, poiché tutti sono convinti che sia un menagramo, pretende la patente di iettatore autorizzato. In questo modo avrà un nuovo lavoro: chi vuole evitare le disgrazie che promanano da lui dovrà pagare per allontanarlo. La maschera rimane ma almeno se ne ricava un vantaggio.
Reazione drammatica [modifica]
L'uomo vuole togliersi la maschera che gli è stata imposta e reagisce con disperazione. Non riesce a strapparsela ed allora se è così che lo vuole il mondo, egli sarà quello che gli altri credono di vedere in lui e non si fermerà nel mantenere questo suo atteggiamento sino alle ultime e drammatiche conseguenze. Si chiuderà in una solitudine disperata che lo porta al dramma, alla pazzia o al suicidio come accade ad esempio per i personaggi dei drammi Enrico IV, dei Sei personaggi in cerca d'autore e Il gioco delle parti, o al protagonista di Uno, nessuno e centomila.
Teatro [modifica]



Busto di Pirandello in un parco di Palermo
Pirandello divenne famoso proprio grazie al teatro che chiama teatro dello specchio, perché in esso viene raffigurata la vita vera, quella nuda, amara, senza la maschera dell'ipocrisia e delle convenienze sociali, di modo che lo spettatore si guardi come in uno specchio così come realmente è, e diventi migliore. Dalla critica viene definito come uno dei grandi drammaturghi del XX secolo. Scriverà moltissime opere, alcune della quali rielaborazioni delle sue stesse novelle, che vengono divise in base alla fase di maturazione dell'autore:
Prima fase - Il teatro siciliano
Seconda fase - Il teatro umoristico
Terza fase - Il teatro nel teatro (metateatro)
Il teatro dei miti
Generalmente si attribuisce l'interesse di Pirandello al teatro nella maturità dei suoi anni, ma alcuni precedenti mostrano come tale convinzione necessiti di una rivalutazione: in gioventù, infatti, Pirandello compose alcuni lavori teatrali andati purtroppo perduti poiché da lui stesso bruciati (tra gli altri, il copione del perduto Gli uccelli dell'alto). In una lettera del 4 dicembre 1887, indirizzata alla famiglia, si legge:
« Oh, il teatro drammatico! Io lo conquisterò. Io non posso penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene. Quell'aria pesante chi vi si respira, m'ubriaca: e sempre a metà della rappresentazione io mi sento preso dalla febbre, e brucio. È la vecchia passione chi mi vi trascina, e non vi entro mai solo, ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia mente, persone che si agitano in un centro d'azione, non ancora fermato, uomini e donne da dramma e da commedia, viventi nel mio cervello, e che vorrebbero d'un subito saltare sul palcoscenico. Spesso mi accade di non vedere e di non ascoltare quello che veramente si rappresenta, ma di vedere e ascoltare le scene che sono nella mia mente: è una strana allucinazione che svanisce ad ogni scoppio di applausi, e che potrebbe farmi ammattire dietro uno scoppio di fischi! »
(Luigi Pirandello, da una lettera ai familiari del 4 dicembre 1887 [15])
È in questa dimensione che si parla di "teatro mentale" [16]: lo spettacolo non è subito passivamente ma serve come pretesto per dar voce ai "fantasmi" che popolano la mente dell'autore (nella prefazione ai Sei personaggi in cerca d'autore Pirandello chiarirà di come la Fantasia prenda possesso della sua mente per presentargli personaggi che vogliono vivere, senza che lui li cerchi).
In un'altra missiva, spedita da Roma e datata 7 gennaio 1888, Pirandello sostiene che la scena italiana gli appare decadente:
« Vado spesso in teatro, e mi diverto e me la rido in veder la scena italiana caduta tanto in basso, e fatta sgualdrinella isterica e noiosa »
(Luigi Pirandello, da una lettera ai familiari del 7 gennaio 1888 [17])
La delusione per non essere riuscito a far rappresentare i primi lavori lo distoglie inizialmente dal teatro, facendolo concentrare sulla produzione novellistica e romanziera.
Nel 1907 pubblica l'importante saggio Illustratori, attori, traduttori dove esprime le sue idee, ancora negative, sull'esecuzione del lavoro dell'attore nel lavoro teatrale: questi è infatti visto come un mero traduttore dell'idea drammaturgica dell'autore, il quale trova dunque un filtro al messaggio che intende comunicare al pubblico. Il teatro viene poi definito da Pirandello come un'arte "impossibile", perché "patisce le condizioni del suo specifico anfibio" [18]: un tradimento della scrittura teatrale, che ha di contro "il cattivo regime dei mezzi rappresentativi, appartenenti alla dimensione adultera dell'eco" [19].
È in questo momento che Pirandello si distacca dalla lezione positivista e, presa diretta coscienza dell'impossibilità della rappresentazione scenica del "vero" oggettivo, ricerca nella produzione drammaturgica di scavare l'essenza delle cose per scoprire una verità altra (come poi spiegò nel saggio L'Umorismo con il sentimento del contrario).
Il 6 ottobre 1924 fonda la compagnia del Teatro d'Arte di Roma con sede al Teatro Odescalchi con la collaborazione di altri artisti: il figlio Stefano Pirandello, Orio Vergani, Claudio Argentieri, Antonio Beltramelli, Giovani Cavicchioli, Maria Letizia Celli, Pasquale Cantarella, Lamberto Picasso, Renzo Rendi, Massimo Bontempelli e Giuseppe Prezzolini[20]: tra gli attori più importanti della compagnia figurano Marta Abba, Lamberto Picasso, Maria Letizia Celli, Ruggero Ruggeri. La compagnia, il cui primo allestimento risale al 2 aprile 1925 con Sagra del signore della nave dello stesso Pirandello e Gli dei della montagna di Lord Dunsany, ebbe però vita breve: i gravosi costi degli allestimenti, che non riuscivano ad essere coperti dagli introiti del teatro semivuoto[21] costrinsero il gruppo, dopo solo due mesi dalla nascita, a rinunciare alla sede del Teatro Odescalchi. Per risparmiare sugli allestimenti la compagnia si produsse prima in numerose tournée estere, poi fu costretta allo scioglimento definitivo, avvenuto a Viareggio nell'agosto del 1928.

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