domenica 13 giugno 2010

EUGENIO MONTALE

« Per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni. »
(Motivazione apportata alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura ad Eugenio Montale nel 1975)
Parlamento italiano'
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Eugenio Montale
Luogo nascita Genova
Data nascita 12 ottobre 1896
Luogo morte Milano
Data morte 12 settembre 1981
Professione Poeta, Scrittore
Legislatura IV
senatore a vita
Investitura Nomina presidenziale
Data 13 giugno 1967 Nobel per la letteratura 1975
Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981) è stato un poeta, giornalista e critico musicale italiano, premio Nobel per la letteratura nel 1975.
Indice [nascondi]
1 Biografia
1.1 Anni giovanili
1.2 Formazione
1.3 Grande Guerra e primo dopoguerra
1.4 Avvento del Fascismo
1.5 Soggiorno a Firenze
1.6 Soggiorno a Milano
1.7 Ultimi anni
2 Le opere
2.1 Ossi di Seppia
2.2 Le occasioni
2.3 La bufera e altro
2.4 Xenia e Satura
3 La poetica e il pensiero
4 Onorificenze
5 Curiosità
6 Note
7 Bibliografia
8 Voci correlate
9 Altri progetti
10 Media
11 Collegamenti esterni
Biografia [modifica]

Anni giovanili [modifica]
Eugenio Montale nasce a Genova, in Corso Dogali, nella zona soprastante Principe, il 12 ottobre 1896, in una famiglia benestante, il padre è comproprietario di una ditta di prodotti chimici. Un nipote del poeta, così delinea in una sua Cronaca famigliare del 1986 i tratti caratteriali di Eugenio Montale:
« Ultimo di sei figli, il giovane Eugenio gode di quella libertà un po' trascurata e malinconica che di solito è riservata all'ultimo di molti fratelli. »
Formazione [modifica]
E infatti, sebbene per lui, ai più lunghi studi classici, vengano preferiti quelli tecnici, a causa della sua salute precaria, e nel 1915 venga iscritto all'Istituto tecnico commerciale "Vittorio Emanuele", dove si diplomerà in ragioneria, il giovane Montale ha tutto l'agio di coltivare i propri interessi prevalentemente letterari, frequentando le biblioteche cittadine e assistendo alle lezioni private di filosofia della sorella Marianna, iscritta a Lettere e Filosofia.
La sua formazione è dunque quella tipica dell'autodidatta, che scopre interessi e vocazione attraverso un percorso libero da condizionamenti che non siano quelli della sua stessa volontà e dei limiti personali. Letteratura (Dante in primo luogo) e lingue straniere sono il terreno in cui getta le prime radici l'immaginario montaliano; assieme al panorama, ancora intatto, della Riviera ligure di levante: Monterosso al Mare e le Cinque Terre, dove la famiglia trascorre le vacanze.
In questo periodo di formazione Montale coltiva inoltre la passione per il canto, studiando dal 1915 al 1923 con l'ex baritono Ernesto Sivori, esperienza che lascia in lui un vivo interesse per la musica. La sua bravura gli farà ricevere nel 1942 dediche da Tommaso Landolfi, fondatore con altri della rivista Letteratura su cui pubblicherà alcune poesie lo stesso Montale:
« Era mio intento testimoniare qui pubblicamente la mia riconoscenza a Eugenio Montale, il celebre baritono profondo (o basso cantante, singing bass), che mi fu largo di consigli e incoraggiamenti durante la redazione dei tre capitoli che seguono. Debbo rinunziarvi per sua espressa volontà: così grande è la sua modestia! Essa è anzi tale che il Maestro fa ben poco caso della sua universal fama d'artista lirico e volentieri - ebbe egli medesimo a confessarmi - la cambierebbe con una anche più modesta nell'arengo delle patrie lettere: debolezze d'uomini illustri! (Da sapere, infatti, che il Montale è autore di due libretti di poesie; non prive al certo di pregio, ancorché lontane dall'eccellenza ch'egli ha raggiunta sulle scene liriche). »
( Tommaso Landolfi, Nota a Da: «La melotecnica esposta al popolo», in La spada, 1942)
Grande Guerra e primo dopoguerra [modifica]
Entrato all'Accademia militare di Parma, fa richiesta di essere inviato al fronte, e dopo una breve esperienza bellica in Vallarsa e Val Pusteria, viene congedato nel 1920.
«Scabri ed essenziali», come egli definì la sua stessa terra, gli anni della giovinezza delimitano in Montale una visione del mondo in cui prevalgono i sentimenti privati e l'osservazione profonda e minuziosa delle poche cose che lo circondano – la natura mediterranea e le donne della famiglia. Ma quel "piccolo mondo" è sorretto intellettualmente da una vena linguistica nutrita di instancabili letture, le più proficue che si possano desiderare: quelle finalizzate al solo piacere della conoscenza e della scoperta. E in quella periferia d'Europa, negli stessi anni in cui D'Annunzio rimbomba per tutta la penisola, Montale ha la fortuna di scoprire non tanto una vocazione di poeta, quanto l'amore per la poesia.
Avvento del Fascismo [modifica]
Montale ha scritto relativamente poco: quattro raccolte di brevi liriche, un "quaderno" di traduzioni di poesia e vari libri di traduzioni in prosa, due volumi di critica letteraria e uno di prose di fantasia. A ciò si aggiunga la collaborazione al Corriere della sera, ed è tutto. Il quadro è perfettamente coerente con l'esperienza del mondo così come si costituisce nel suo animo negli anni di formazione, che sono poi quelli in cui vedono la luce le liriche della raccolta Ossi di seppia. È il momento dell'affermazione del fascismo, dal quale Montale prende subito le distanze sottoscrivendo nel 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Montale vive questo periodo nella "reclusione" della provincia ligure, che gli ispira una visione claustrofobica e impotente della vita di cui non è tuttavia del tutto consapevole, almeno fino agli anni della maturità, nella nuova stagione dell'impegno civile neorealista.
L'emarginazione sociale a cui era condannata la classe di appartenenza, colta e liberale, della famiglia, acuisce nel poeta la percezione del mondo, la capacità di penetrare nelle impressioni che sorgono dalla presenza dei paesaggi naturali: la solitudine genera il colloquio con le cose, quelle piccole e insignificanti della riviera ligure, o quella lontana e suggestiva del suo orizzonte, il mare. Una natura "scarna, scabra, allucinante", e un "mare fermentante" dal richiamo ipnotico, come solo quello mediterraneo abbacinato dal sole può suscitare. In una vita che appare già sconfitta prima ancora di cominciare, la natura ispira un sentimento di dignità profonda ed essenziale che è lo stesso che si prova leggendo le liriche del poeta.
Soggiorno a Firenze [modifica]
Montale giunge a Firenze nel 1927 per il lavoro di redattore ottenuto presso l'editore Bemporad. Nel capoluogo toscano gli anni precedenti erano stati decisivi per la nascita della poesia italiana moderna, soprattutto grazie alle aperture della cultura fiorentina nei confronti di tutto ciò che accadeva in Europa. Le Edizioni de La Voce; i Canti orfici di Dino Campana (1914); le prime liriche di Ungaretti per Lacerba; e l'accoglienza che poeti come Vincenzo Cardarelli e Umberto Saba avevano ricevuto presso gli editori fiorentini: tutto ciò aveva gettato le basi di un profondo rinnovamento culturale che neppure la censura fascista avrebbe potuto spegnere.
Montale dunque entra silenziosamente, ma con l'impressionante "biglietto da visita" dell'edizione degli Ossi del '25, nell'officina della poesia italiana. Nel 1929 è chiamato a dirigere il Gabinetto scientifico letterario G. P. Vieusseux (ne sarà espulso nel 1938 dal fascismo); nel frattempo collabora alla rivista Solaria, frequenta i ritrovi letterari del caffè Le Giubbe Rosse conoscendovi Carlo Emilio Gadda e Elio Vittorini, e scrive per quasi tutte le nuove riviste letterarie che nascono e muoiono in quegli anni di incessante ricerca poetica.In questo contesto provò anche l'arte pittorica imparando dal Maestro Elio Romano l'impasto dei colori e l'uso dei pennelli.
La vita a Firenze però si trascina per il poeta tra incertezze economiche e fragili rapporti sentimentali; i suoi "libri della vita" sono Dante e Svevo, coi classici americani; degli innumerevoli altri non parla se non indirettamente, attraverso le tracce da essi lasciate nella sua opera. Fino al 1948, l'anno del trasferimento a Milano, egli pubblica le grandi raccolte poetiche Le occasioni e La bufera e altro. Montale ha dunque coltivato la propria "vena" poetica nell'atmosfera raccolta e amichevole di un mondo di intellettuali che il fascismo condanna a un deprimente silenzio, non tanto con imposizioni violente quanto con la forza schiacciante di un conformismo di massa che rende vano ogni tentativo di rivolta e invisibile la differenza di chi non vuole adattarsi. In questa clausura, il lavoro, l'amicizia e lo scambio intellettuale sono però profondi e decisivi, tanto che Franco Fortini può dire che la poesia di Montale (con particolare riferimento proprio agli Ossi e a Le Occasioni) è parsa, a partire dagli anni sessanta, la più alta di tutto il Novecento italiano.
Soggiorno a Milano [modifica]
« L'argomento della mia poesia (...) è la condizione umana in sé considerata: non questo o quello avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col transitorio (...). Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia »
(E. Montale in "Confessioni di scrittori (Intervista con se stessi)", Milano 1976)
L'ultima tappa del viaggio di Montale nel mondo è Milano (dal 1948 alla morte). Diventato collaboratore del Corriere della sera, scrive critiche musicali e reportage culturali da vari paesi (fra cui il Medio Oriente, visitato in occasione del pellegrinaggio di Papa Paolo VI in Palestina). Scrive altresì di letteratura anglo-americana per la Terza Pagina, avvalendosi della collaborazione preziosa quanto segreta dell'amico americano Henry Furst (New York, 1893- La Spezia, 1967) il quale gli invia molti articoli su autori e argomenti richiesti dallo stesso Montale, poi comparsi con minime varianti a firma di quest'ultimo, sul quotidiano di via Solferino. La vicenda venne rivelata da Mario Soldati nel racconto "Due amici", per l'appunto Montale e Furst, nel volume "Rami secchi" edito presso Rizzoli nel novembre 1989 e soprattutto, prim'ancora dell'uscita di tale volume, da Marcello Staglieno, con la pubblicazione su un'intera Terza Pagina del "Giornale" diretto da Montanelli di alcune delle lettere inedite di Montale all'amico (avute anni prima dalla vedova di Furst, la scrittrice Orsola Nemi), lettere che comprovavano tale vicenda non propriamente elegante per Montale, ripresa con un certo clamore da tutta la stampa italiana (si veda Marcello Staglieno, a cura di, "«Enrico aiutami: è una vita impossibile», lettere inedite di Eugenio Montale a Henry Furst", in "Il Giornale", 24 ottobre 1989, p.3, che comprende la prosa poetica montaliana, dedicata a Furst, "Il lieve tintinnìo del collarino", 1943).
Per tornare al "viaggiare" , esso non è parte dell'immaginario poetico montaliano; non per nulla l'antologia dei suoi reportage porta il titolo di Fuori di casa (1969). Il mondo di Montale è la "trasognata solitudine" (A. Marchese) del suo appartamento milanese di via Bigli.
Questo poeta, che ha cantato il mare e l'ultima donna-angelo della poesia italiana, è "della razza di chi rimane a terra": non è l'infinito il suo mondo, né del mare né del cielo, ma il mistero indecifrabile, e forse inesistente, degli oggetti quotidiani che accompagnano il disincanto di un poeta che non vuole dirsi tale.
Ultimi anni [modifica]


Immagine del poeta
Le ultime raccolte di versi, Xenia (dedicata alla moglie Drusilla Tanzi, dopo la morte di lei nel 1963), ('66), Satura ('71) e Diario del '71 e del '72 ('73), testimoniano in modo definitivo il distacco del poeta - ironico e mai amaro - dalla Vita con la maiuscola: «pensai presto, e ancora penso, che l'arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato» (Montale, Intenzioni. Intervista immaginaria, Milano 76). Nel poeta ligure confluiscono quegli spiriti della "crisi" che la reazione anti-dannunziana aveva generato fin dai Crepuscolari: tutto ciò che era stato scritto con vena ribelle nel brulicante mondo poetico italiano tra le due guerre, in lui diventa poesia vera ed alta, l'ultima possibile prima di scoprire altre ragioni per essere poeti. E paradossalmente, il poeta più trasognato e "dimesso" del novecento italiano, è anche stato il più carico di riconoscimenti ufficiali: lauree ad honorem (Milano '61, Cambridge '67, Roma '74), nomina a senatore a vita nel '67 e premio Nobel nel '75. Nel pieno del dibattito civile sulla necessità dell'impegno politico degli intellettuali, Montale continuò ad essere il poeta più letto in Italia. A testimonianza forse del fatto che il compito della poesia non è mai stato quello di dare risposte ma di rieducare a guardare il mondo.
Eugenio Montale muore a Milano alle 21.18 del 12 settembre 1981 un mese prima di compiere 85 anni nella clinica San Pio X dove si trovava ricoverato per problemi derivati da una vascolopatia cerebrale. Viene sepolto nel cimitero accanto alla chiesa di San Felice a Ema, sobborgo nella periferia sud di Firenze, accanto alla moglie Drusilla.
Le opere [modifica]

Le raccolte di versi contengono la storia della sua poesia: Ossi di seppia (1925); Le occasioni (1939); Finisterre (1943); Quaderno di traduzioni (1948); La bufera e altro (1956); Farfalla di Dinard (1956); Xenia (1966); Auto da fè (1966); Fuori di casa (1969); Satura (1971); Diario del '71 e del '72 (1973); Sulla poesia (1976); Quaderno di quattro anni (1977); Altri versi (1980); Diario Postumo (1996) (su quest'ultima opera è stato manifestato il dubbio di non autenticità da parte di alcuni studiosi).[1]
Ossi di Seppia [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Ossi di seppia.
Il primo momento della poesia di Montale rappresenta la felice affermazione del motivo lirico. Montale, in Ossi di seppia (1925) edito da Piero Gobetti, attinge l'impossibilità di dare una risposta all'esistenza: nella lirica Non chiederci la parola (introduzione in Ossi di Seppia), egli afferma che è possibile dire solo "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", sottolineando la negatività della condizione esistenziale. Lo stesso titolo dell'opera designa l'esistenza umana, logorata dalla natura, e ormai ridotta ad un oggetto inanimato, privo di vita. In tal modo Montale capovolge l'atteggiamento fondamentale della poesia: il poeta non può trovare e dare risposte o certezze; sul destino dell'uomo incombe quella che il poeta, nella lirica Spesso il male di vivere ho incontrato, definisce "Divina Indifferenza", ciò che non mostra alcuna partecipazione emotiva nei confronti dell'uomo.
La prima raccolta di Montale uscì nel giugno del 1925 e comprende poesie scritte tra il 1920 e il 1925. Il libro si presenta diviso in otto sezioni: Movimenti, Poesie per Camillo Sbarbaro, Sarcofaghi, Altri versi, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi ed ombre; a questi fanno da cornice una introduzione (In limine) e una conclusione (Riviere). Il titolo della raccolta vuole evocare i relitti che il mare abbandona sulla spiaggia, come gli ossi di seppia che le onde portano a riva; qualcosa di simile, vuole dirci il poeta, sono le sue poesie; in un'epoca che non permette più ai poeti di lanciare messaggi, di fornire un'interpretazione compiuta della vita e dell'Uomo, le poesie sono frammenti di un discorso che resta sottinteso e approdano alla riva del mare come per caso, frutto di momentanee illuminazioni. Le poesie di questa raccolta traggono lo spunto iniziale da una situazione, da un episodio della vita del poeta, da un paesaggio, come quello della Liguria, per esprimere temi più generali: la rottura tra individuo e mondo, la difficoltà di conciliare la vita con il bisogno di verità, la consapevolezza della precarietà della condizione umana. Si affollano in queste poesie oggetti, presenze spesso umili che non compaiono solitamente nel linguaggio dei poeti, alle quali Montale affida, in toni dimessi, la sua analisi negativa del presente ma anche la non rassegnazione, l'attesa di un miracolo. L'autore esprime spesso ambiguità nel considerare ambienti, cose e personaggi dei quali sovente si fa una cattiva interpretazione, ad esempio l'amico lontano che viene citato in una lirica di questa raccolta viene confuso con un'eventuale donna amata dal poeta.
Il manoscritto autografo di Ossi di Seppia è attualmente conservato presso il Fondo Manoscritti dell'Università di Pavia.
Le occasioni [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Le occasioni.
In Le occasioni (1939) la poesia è fatta di simbolo di analogia, di enunciazioni lontane dall'abbandono dei poeti ottocenteschi. Il mondo poetico di Montale appare desolato, oscuro, dolente, privo di speranza; infatti, tutto ciò che circonda il poeta è guardato con pietà e con misurata compassione. Simbolica la data di pubblicazione, 14 ottobre 1939, poco dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale; i soldati videro in Montale e nel suo atteggiamento passivo una via da seguire.
Il fascicolo di poesie è dedicato a una misteriosa I.B, iniziali della poetessa e studiosa di Dante Irma Brandeis.
La memoria è sollecitata da alcune "occasioni" di richiamo, in particolare si delineano figure femminili (per esempio una fanciulla conosciuta in vacanza a Monterosso, Annetta-Arletta), nuove "Beatrici" a cui il poeta affida la propria speranza.
La figura della donna, soprattutto Clizia, viene perseguita da Montale attraverso un'idea lirica della donna-angelo, messaggera di Dio. I tratti che servono per descriverla sono rarissimi, ed il desiderio è interamente una visione dell'amore che si configura come platonico (che è soltanto ideale e non si traduce nella realtà). Nel contempo il linguaggio si fa meno penetrabile e i messaggi sono sottintesi; Montale, però non cede all'ermetismo irrazionale, ma riafferma la propria tensione razionale e sentimentale.
Ne Le occasioni la frase divenne più libera e la riflessione filosofica, che è il pregio maggiore della poesia di Montale, diviene più vigorosa. Il poeta indaga le ragioni della vita, l'idea della morte, l'impossibilità di dare una spiegazione valida all'esistenza.
La bufera e altro [modifica]
Per approfondire, vedi la voce La bufera e altro.
Sono componimenti riguardanti temi di guerra e di dolore pubblicati nel 1956.
Xenia e Satura [modifica]
Negli ultimi anni Montale approfondì la propria filosofia, quasi temesse di non avere abbastanza tempo "per dire tutto" (sensazione di morire), Xenia (1966) è una raccolta di poesie dedicate alla propria moglie defunta, Drusilla Tanzi, amorevolmente soprannominata "Mosca" per le spesse lenti degli occhiali da vista. Il titolo richiama xenia, che nell'antica Grecia erano i doni fatti all'ospite, e che ora dunque costituirebbero il dono alla propria moglie. Nello stesso anno Montale pubblicò i saggi Auto da fé, una lucida riflessione sulle trasformazioni culturali in corso.
Le poesie di Xenia furono pubblicate insieme alla raccolta Satura, con il titolo complessivo Satura, nel gennaio 1971. «Con questo libro - scrive Marco Forti nel risvolto di copertina dell'edizione Mondadori - Montale ha sciolto il gran gelo speculativo e riepilogativo della Bufera e ha ritrovato, semmai, la varietà e la frondosità, la molteplicità timbrica, lo scatto dell'impennata lirica e insieme la "prosa" che, già negli Ossi di seppia, costituirono la sua sorprendente novità.»
La poetica e il pensiero [modifica]

Consapevole che la conoscenza umana non può raggiungere l'assoluto, nemmeno tramite la poesia, a cui spesso si tende ad affidare il ruolo di fonte d'elevazione spirituale per eccellenza, Montale scrive poesia perché questa possa essere una sorta di strumento/testimonianza d'indagine della condizione esistenziale dell'uomo novecentesco. A differenza delle allusioni ungarettiane, Montale fa un ampio uso di idee, di emozioni e di sensazioni più indefinite. Montale cerca una soluzione simbolica in cui la realtà dell'esperienza diventa una testimonianza di vita. È la negatività esistenziale vissuta dall'uomo novecentesco dilaniato dal divenire storico. Il poeta, però, vede in alcune immagini una sorta di speranza contro questa situazione di "male di vivere": ad esempio, il mare (pensando a Ossi di seppia) e in alcune figure di donne che sono state importanti nella sua vita. La poesia di Montale assume dunque il valore di testimonianza e un preciso significato morale: Montale esalta lo stoicismo etico di chi compie in qualsiasi situazione storica e politica il proprio dovere. Montale non credeva all'esistenza di «leggi immutabili e fisse» che regolassero l'esistenza dell'uomo e della natura; da qui deriva la sua coerente sfiducia in qualsiasi teoria filosofica, religiosa, ideologica che avesse la pretesa di dare un inquadramento generale e definitivo, la sua diffidenza verso coloro che proclamavano fedi sicure. Per il poeta la realtà è segnata da una insanabile frattura fra l'individuo e il mondo, che provoca un senso di frustrazione e di estraneità, un malessere esistenziale. Questa condizione umana è, secondo Montale, impossibile da sanare se non in momenti eccezionali, veri stati di grazia istantanei che Montale definisce miracoli, gli eventi prodigiosi in cui si rivela la verità delle cose, il senso nascosto dell'esistenza. Montale matura negli anni della giovinezza una visione prevalentemente negativa della vita, come egli stesso ha dichiarato. Rispetto a questa visione, la poesia si pone per Montale come espressione profonda e personale della propria ricerca di dignità e del tentativo più alto di comunicare fra gli uomini. L'opera di Montale è, infatti, sempre sorretta da un'intima esigenza di moralità, ma priva di qualunque intenzione moralistica: il poeta non si propone come guida spirituale o morale per gli altri; attraverso la poesia egli tenta di esprimere la necessità dell'individuo di vivere nel mondo accogliendo con dignità la propria fragilità, incompiutezza, debolezza.
Alcuni caratteri fondamentali del linguaggio poetico montaliano sono i simboli: nella poesia di Montale compaiono oggetti che tornano e rimbalzano da un testo all'altro e assumono il valore di simboli della condizione umana, segnata, secondo Montale, dal malessere esistenziale, e dall'attesa di un avvenimento, un miracolo, che riscatti questa condizione rivelando il senso e il significato della vita. In Ossi di seppia il muro è il simbolo negativo di uno stato di chiusura e oppressione, mentre i simboli positivi che alludono alle possibilità di evasione, di fuga e di libertà sono l'anello che non tiene, il varco, la maglia rotta nella rete. Nelle raccolte successive il panorama culturale, sentimentale e ideologico cambia e, quindi, risulta nuova anche la simbologia. Per esempio nella seconda raccolta, Le occasioni, diventa centrale la figura di Clizia, il nome letterario che allude ad una giovane americana (Irma Brandeis, italianista ed ebrea) amata da Montale[2], che si trasforma in una sorta di angelo dal quale soltanto è possibile aspettare il miracolo e dal quale dipende ogni residua possibilità di salvezza.

SALVATORE QUASIMODO

« Per la sua poetica lirica, che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi »
(Motivazione del Premio Nobel)

Salvatore Quasimodo
Nobel per la letteratura 1959
Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli, 14 giugno 1968) fu un poeta italiano, la cui poetica muove dall'ermetismo, vinse il premio Nobel per la letteratura nel 1959.
Indice [nascondi]
1 I primi anni
2 Gli studi
3 A Firenze
4 A Reggio Calabria
5 A Imperia e a Genova
6 A Milano
7 Il poeta e lo scrittore
8 Opere
9 Parco Letterario di Roccalumera
10 Altri progetti
11 Voci correlate
12 Collegamenti esterni
I primi anni [modifica]
Salvatore Quasimodo nacque a Modica( Ragusa) figlio di Gaetano Quasimodo e Clotilde Ragusa . La permanenza a Modica della famiglia Quasimodo dura solo 12 mesi. Il padre Gaetano , infatti , vi giunge alla fine del 1900. Il 20 agosto 1901 nasce il Poeta. Ma come egli stesso narra,in una intervista televisiva, solo dopo qualche giorno dalla nascita, in seguito all' inondazione di Modica, parte da Roccalumera nonno Vincenzo, che conduce al sicuro nella casa familiare roccalumerese la madre Clotilde, il Poeta e gli altri fratelli più grandicelli . Il padre Gaetano dopo due mesi dalla nascita di Salvatore, ossia nell'ottobre 1901 è trasferito ad un'altra stazione. La famiglia pertanto non tornerà più in quella cittadina. Salvatore già da bambino fu costretto a spostarsi frequentemente con la propria famiglia al seguito del Padre nelle varie stazioni ferroviarie siciliane ove egli era inviato a prestare servizio . Questi , infatti , iniziò a lavorare in ferrovia all'età di 7 anni, venendo impegnato alla costruzione del binario ferroviario Messina-Catania . Attivati i transiti dei treni, il padre fu mantenuto in servizio come ferroviere. La casa familiare dei Quasimodo ,( costruita da nonno Vincenzo, anche lui ferroviere ) era a Roccalumera , in Provincia di Messina, paese al quale sia Salvatore che tutta la Famiglia sono rimasti intrinsecamente legati . Il padre diventato “ capostazione principale “, veniva mandato a reggere stazioni di capoluoghi di Provincia come: Messina, subito dopo il terre-maremoto del 1908 in una Stazione letteralmente distrutta dall'evento tellurico (Salvatore avrà sette anni e trasfonderà la tragedia del terremoto in meravigliosi versi in "Al padre"), Agrigento, Palermo e Siracusa, dove la sorella Rosina conobbe Elio Vittorini, anch'egli figlio di ferroviere, con il quale si sposò. Il padre andò in pensione nel 1927, e dopo una breve permanenza a Firenze, durante la quale perse la moglie, si ritirò definitivamente nella sua casa di Roccalumera, dove visse con due sorelle che non si erano sposate. Salvatore, seguendo il padre, di stazione in stazione, frequentò le prime classi a Gela e poi negli altri luoghi. Subito dopo il catastrofico Terremoto di Messina del 1908 andò a vivere a Messina, dove il padre era stato chiamato per riorganizzare la locale stazione. Prima dimora della famiglia in quei tempi furono i vagoni ferroviari. Un'esperienza di dolore tragica e precoce che avrebbe lasciato un segno profondo nell'animo del poeta. Si trasferì in seguito in una abitazione sita in Via Crocerossa , dove trascorse gli anni delle scuole tecniche , frequentate presso l’Istituto “Jaci “ dove conseguì il diploma di geometra. Trascorreva le estati ed il tempo libero a Roccalumera , insieme ai fratelli ( luogo che lo ispirerà per tante poesie come ad esempio “ Vicino a una torre saracena, per il fratello morto “ )
Gli studi [modifica]
A Messina frequentò l'Istituto tecnico matematico-fisico "Jaci" che dava la possibilità di accedere alla Facoltà di Ingegneria e nel 1919 conseguì il diploma. Durante la permanenza in questa città conobbe il noto giurista Salvatore Pugliatti e Giorgio La Pira, futuro sindaco di Firenze, con i quali strinse una duratura amicizia.
Nel 1917 fondò il "Nuovo giornale letterario", un mensile che ebbe breve vita e sul quale pubblicò le sue prime poesie. Nel 1919 si trasferì a Roma dove pensava di terminare gli studi di Ingegneria ma, subentrate precarie condizioni economiche, dovette abbandonarli per impiegarsi come disegnatore tecnico presso un'impresa edile e in seguito presso un grande magazzino.
Nel frattempo collaborò ad alcuni periodici e iniziò lo studio del greco e del latino con la guida di monsignore Rampolla del Tindaro dedicandosi ai classici destinati a divenire per lui fonte di schietta ispirazione.
A Firenze [modifica]
Nel 1929, in seguito all'invito di Elio Vittorini, che aveva sposato sua sorella e viveva a Firenze, decise di trasferirsi in quella città. Qui conobbe diversi letterati appartenenti all'ambiente letterario fiorentino tra i quali Alessandro Bonsanti e Eugenio Montale e con l'ambiente della rivista letteraria Solaria.
A Reggio Calabria [modifica]
Nel 1930, assunto come "geometra straordinario" dal Ministero dei Lavori Pubblici, venne assegnato al Genio Civile di Reggio Calabria. Qui strinse amicizia con i fratelli Enzo Misefari e Bruno Misefari, entrambi esponenti (il primo è comunista, il secondo è anarchico) del movimento antifascista di Reggio Calabria, che lo invogliarono a ritornare a scrivere.
Così maturò e affinò il suo gusto ermetico, cominciando a dare consistenza alla raccolta Acque e terre che pubblicò quello stesso anno per le edizioni di Solaria.
Nel periodo di Reggio Calabria nacque la mirabile Vento a Tindari, dedicata alla storica località presso Patti.
A Imperia e a Genova [modifica]
Nel 1931 venne trasferito presso il Genio Civile di Imperia e in seguito presso quello di Genova.
In questa città conobbe Camillo Sbarbaro e le personalità di spicco che gravitavano intorno alla rivista Circoli, con la quale il poeta iniziò una proficua collaborazione pubblicando, nel 1932, per le edizioni della stessa, la sua seconda raccolta Oboe sommerso nella quale sono raccolte tutte le poesie scritte tra il 1930 e il 1932 e dove comincia a delinearsi con maggior chiarezza la sua adesione all'ermetismo.
A Milano [modifica]


Ottenuto il trasferimento a Milano nel 1934, venne destinato da un capoufficio, che non sopportava i poeti, alla sede di Sondrio, da dove prendeva ogni giorno il treno per il capoluogo lombardo. Qui si dedicò a una varia attività pubblicistica entrando in contatto con un ricco ambiente culturale.
Nel 1938 lasciò il Genio Civile per dedicarsi alla letteratura ed alla poesia, iniziò a lavorare per Cesare Zavattini in una impresa di editoria e soprattutto si dedicò alla collaborazione con Letteratura, la rivista ufficiale dell'Ermetismo.
Nel 1938 pubblicò a Milano, con un'introduzione del critico Oreste Macrì, una raccolta antologica intitolata Poesie e nel 1939, mentre collaborava a Il Tempo, iniziò la traduzione dei Lirici greci, opera che verrà pubblicata nel 1940 a Milano con una prefazione di Luciano Anceschi e che susciterà grande consenso.
Nel 1941 venne nominato, per chiara fama, professore di Letteratura italiana presso il Conservatorio di musica "Giuseppe Verdi" di Milano, incarico che mantenne fino alla fine del 1968.
Nel 1942 uscirà nella collezione Lo specchio della Mondadori, a Milano, l'opera Ed è subito sera, che inglobava anche le Nuove poesie scritte tra il 1936 e il 1942.
Pur professando chiare idee antifasciste, non partecipò attivamente alla Resistenza; in quegli anni si diede alla traduzione del Vangelo secondo Giovanni, di alcuni Canti di Catullo e di episodi dell'Odissea che verranno pubblicati solamente dopo la Liberazione.
Nel 1945 si iscrisse al Partito comunista e l'anno seguente pubblicò la nuova raccolta dal titolo Con il piede straniero sopra il cuore — ristampata nel 1947 con il nuovo titolo Giorno dopo giorno —, testimonianza dell'impegno morale dell'autore che continuerà, in modo sempre più profondo, nelle successive raccolte come La vita non è sogno, Il falso e il vero verde e La terra impareggiabile, che si pongono, con il loro tono epico, come esempio di limpida poesia civile.
Durante questi anni il poeta continuò a dedicarsi con appassionato fervore all’opera di traduttore sia di autori classici che moderni e svolse una continua e fervida attività giornalistica, per periodici e quotidiani, dando il suo contributo soprattutto con articoli di critica teatrale.
Nel 1950 il poeta ottenne il Premio San Babila, nel 1953 il premio Etna-Taormina, nel 1958 il premio Viareggio e nel 1959 gli fu assegnato il premio Nobel per la letteratura che gli fece raggiungere una definitiva fama e gli fece ottenere le lauree honoris causa dalla Università di Messina nel 1960 e da quella di Oxford nel 1967.
Il poeta trascorse gli ultimi anni di vita compiendo numerosi viaggi in Europa e in America per tenere conferenze e letture pubbliche delle sue liriche che nel frattempo erano state tradotte in diverse lingue.
Nel giugno del 1968, mentre il poeta si trovava ad Amalfi, venne colpito da un ictus che lo condurrà alla morte dopo pochi giorni all'ospedale di Napoli. Il suo corpo sarà trasportato a Milano e seppellito nel Cimitero Monumentale.
Il poeta e lo scrittore [modifica]

« Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. »
(Salvatore Quasimodo, da Uomo del mio tempo)


Un'immagine di Quasimodo degli ultimi anni
La prima raccolta di Quasimodo, Acque e terre (1930), è incentrata sul tema della sua terra natale, la Sicilia, che l'autore lasciò già nel 1919: l’isola diviene l’emblema di una felicità perduta cui si contrappone l’asprezza della condizione presente, dell’esilio in cui il poeta è costretto a vivere (così in una delle liriche più celebri del libro, Vento a Tindari). Dalla rievocazione del tempo passato emerge spesso un’angoscia esistenziale che, nella forzata lontananza, si fa sentire in tutta la sua pena. Questa condizione di dolore insopprimibile assume particolare rilievo quando il ricordo è legato ad una figura femminile, come nella poesia Antico inverno. Se in questa prima raccolta Quasimodo appare legato a modelli abbastanza riconoscibili (soprattutto D’Annunzio, del quale viene ripresa la tendenza all’identificazione con la natura), in Oboe sommerso (1932) ed Erato e Apollion (1936) il poeta raggiunge la piena maturità espressiva.
La ricerca della pace interiore è affidata ad un rapporto col divino che è, e resterà successivamente, tormentato anche se animato da un anelito sincero, mentre la Sicilia si configura come terra del mito, terra depositaria della cultura greca: non a caso Quasimodo pubblicherà, nel 1940, una notissima traduzione dei Lirici greci. In particolare, nel libro del ’36 vengono celebrati Apollo - il dio del sole ma anche il dio cui sono legate le Muse, e quindi la stessa creazione poetica che è resa dolorosa dalla distanza fisica dell’isola - ed Ulisse, l’esule per eccellenza. È in queste raccolte che si può cogliere appieno la suggestione dell’ermetismo, di un linguaggio che ricorre spesso all’analogia e tende ad abolire i nessi logici tra le parole: importante è in questo senso l’uso frequente dell’articolo indeterminativo e degli spazi bianchi che, all’interno della lirica, sembrano rimandare continuamente a una serie di significati nascosti che non possono trovare una piena espressione.
Nelle Nuove poesie (pubblicate insieme alle raccolte precedenti nel volume Ed è subito sera del 1942 e scritte a partire dal 1936) il ritmo diventa più disteso grazie anche all’uso più frequente dell’endecasillabo: il ricordo della Sicilia è ancora vivissimo ma si avverte nel poeta un’inquietudine nuova, la voglia di uscire dalla sua solitudine e confrontarsi con i luoghi e le persone della sua vita attuale. In alcune liriche compare infatti il paesaggio lombardo, esemplificato dalla «dolce collina d’Ardenno» che porta all’orecchio del poeta «un fremere di passi umani» (La dolce collina). Questa volontà di dialogo si fa evidente nelle raccolte successive, segnate da un forte impegno civile e politico sollecitato dalla tragedia della guerra; la poesia rarefatta degli anni giovanili lascia il posto un linguaggio più comprensibile, dai ritmi più ampi e distesi. Così avviene in Giorno dopo giorno (1947) dove le vicende belliche costituiscono il tema dominante. La voce del poeta, annichilita di fronte alla barbarie («anche le nostre cetre erano appese», afferma in Alle fronde dei salici), non può che contemplare la miseria della città bombardata, o soffermarsi sul dolore dei soldati impegnati al fronte, mentre affiorano alla memoria delicate figure femminili, struggenti simboli di un’armonia ormai perduta (S’ode ancora il mare). L’unica speranza di riscatto è allora costituita dalla pietà umana (Forse il cuore). In La vita non è sogno (1949) il Sud è cantato come luogo di ingiustizia e di sofferenza dove il sangue continua a macchiare le strade (Lamento per il Sud); il rapporto con Dio si configura come un dialogo serrato sul tema del dolore e della solitudine umana. Il poeta sente l’esigenza di confrontarsi con i propri affetti, con la madre che ha lasciato quand’era ancora un ragazzo e che continua a vivere la sua vita semplice ed ignara dell’angoscia del figlio ormai adulto, o col ricordo della prima moglie Bice Donetti. Nella raccolta Il falso e vero verde (1956) dove lo stesso titolo è indicativo di un’estrema incertezza esistenziale, un’intera sezione è dedicata alla Sicilia, ma nel volume trova posto anche una sofferta meditazione sui campi di concentramento che esprime «un no alla morte, morta ad Auschwitz» (Auschwitz).
La terra impareggiabile (1958) mostra un linguaggio più vicino alla cronaca, legato alla rappresentazione della Milano simbolo di quella «civiltà dell’atomo» che porta ad una condizione di devastante solitudine e conferma nel poeta la voglia di dialogare con gli altri uomini, fratelli di dolore. L’isola natìa è luogo mitizzato, «terra impareggiabile» appunto, ma è anche memoria di eventi tragici come il terremoto di Messina del 1908 (Al padre).
L’ultima raccolta di Quasimodo, Dare e avere, risale al 1966 e costituisce una sorta di bilancio della propria esperienza poetica ed umana: accanto ad impressioni di viaggio e riflessioni esistenziali molti testi affrontano, in modo più o meno esplicito, il tema della morte, con accenti di notevole intensità lirica.
Opere [modifica]

Acque e terre, Edizioni di "Solaria", Firenze 1930
Oboe sommerso, Edizioni di "Circoli", Genova 1932
Erato e Apòllìon, pref. di S.Solmi, Scheiwiller, Milano 1938
Poesie, Edizioni "Primi Piani", Milano 1938
Lirici Greci, pref. di L. Anceschi, Edizioni di Corrente, Milano 1940
Ed è subito sera, Mondadori, "Lo Specchio", Milano 1942
Con il piede straniero sopra il cuore (Alle fronde dei salici), Edizioni di "Costume", Milano 1946
Giorno dopo giorno, Mondadori, Milano 1947
La vita non è sogno, Mondadori, Milano 1949
Il falso e vero verde, Schwarz, Milano 1954
Il fiore delle "Georgiche", Mondadori 1957
La terra impareggiabile, 1958
Il poeta e il politico e altri saggi, Schwarz, Milano 1960
Dare e avere, Schwarz, Milano 1966
Leonida di Taranto, Edizioni Apollinaire, Milano 1967 (edizione speciale in collaborazione a cura di) Guido Le Noci
Alle fronde dei salici
Leonida di Taranto in edizione normale in collaborazione, Editore Lacaita, Manduria (Taranto)1967
Messaggi di primavera

GIUSEPPE UNGARETTI

Giuseppe Ungaretti (Alessandria d'Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1° giugno 1970) è stato un poeta e scrittore italiano.
Indice [nascondi]
1 Biografia
1.1 Anni giovanili
1.2 Soggiorno in Francia
1.3 La Grande Guerra
1.4 Tra le due guerre
1.5 La seconda guerra mondiale e il dopoguerra
1.6 Gli ultimi anni
2 Poetica
3 La fortuna di Ungaretti
4 Opere principali
4.1 Poesia
4.2 Prosa e saggistica
4.3 Traduzioni
4.4 Epistolari
5 Altri progetti
6 Note
7 Bibliografia
8 Collegamenti esterni
Biografia

Anni giovanili
Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d'Egitto, nel quartiere periferico di Moharrem Bey,[1] l'8 febbraio 1888 (ma venne denunciato all'anagrafe come nato il 10 febbraio, e festeggiò sempre il suo compleanno in quest'ultima data) da genitori lucchesi. Il padre, operaio allo scavo del Canale di Suez, morì due anni dopo la nascita del poeta, nel 1890. La madre, Maria Lunardini, mandò avanti la gestione di un forno di proprietà, con il quale garantì gli studi al figlio, che si poté iscrivere in una delle più prestigiose scuole di Alessandria, la Svizzera École Suisse Jacot.[2]
L'amore per la poesia nacque durante questi anni di scuola e si intensificò grazie alle amicizie che egli strinse nella città egiziana, così ricca di antiche tradizioni come di nuovi stimoli, derivanti dalla presenza di persone provenienti da tanti paesi del mondo; Ungaretti stesso ebbe una balia originaria del Sudan, ed una domestica croata.
In questi anni, attraverso la rivista Mercure de France, il giovane si avvicinò alla letteratura francese e, grazie all'abbonamento a La Voce, alla letteratura italiana: inizia così a leggere le opere, tra gli altri, di Rimbaud, Mallarmé, Leopardi, Nietzsche, Baudelaire, quest'ultimo grazie all'amico Moammed Sceab.
Ebbe anche uno scambio di lettere con Giuseppe Prezzolini. Nel 1906 conobbe Enrico Pea, da poco tempo emigrato in Egitto, con il quale condivise l'esperienza della "Baracca Rossa", un deposito di marmi e legname dipinto di rosso che divenne sede di incontri per anarchici e socialisti.[3]
Lavorò per qualche tempo come corrispondente commerciale, ma realizzò alcuni investimenti sbagliati; si trasferì poi a Parigi per svolgere gli studi universitari.
Soggiorno in Francia
Nel 1912 Ungaretti, dopo un breve periodo trascorso al Cairo, lasciò l'Egitto e si recò a Parigi. Nel tragitto vide per la prima volta l'Italia ed il suo paesaggio montano. A Parigi frequentò per due anni le lezioni del filosofo Bergson, del filologo Bédier e di Strowschi, alla Sorbonne e al Collège de France.
Venuto a contatto con l'ambiente artistico internazionale, conobbe Apollinaire, con il quale strinse una solida amicizia, ma anche con Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Palazzeschi, Picasso, De Chirico, Modigliani e Braque. Invitato da Papini, Soffici e Palazzeschi iniziò la collaborazione alla rivista Lacerba.
Nel 1913 morì l'amico d'infanzia Sceab, suicida nell'albergo di rue des Carmes[4] che condivideva con Ungaretti. Nel 1916, all'interno de Il porto sepolto, verrà pubblicata la poesia a lui dedicata, In memoria.
In Francia Ungaretti filtrò le precedenti esperienze, perfezionando le sue conoscenze letterarie e il suo stile poetico. Dopo qualche pubblicazione su Lacerba, decise di partire volontario per la Grande Guerra.
La Grande Guerra
Quando nel 1914 scoppiò la Prima Guerra Mondiale, Ungaretti partecipò alla campagna interventista, per poi arruolarsi volontario nel 19° reggimento di fanteria, quando il 24 maggio 1915 l'Italia entrò in guerra. Combatté sul Carso e in seguito a questa esperienza scrisse le poesie che, raccolte dall'amico Ettore Serra (un giovane ufficiale), vennero stampate in 80 copie presso una tipografia di Udine nel 1916, con il titolo Il porto sepolto. Collaborava a quel tempo anche al giornale di trincea Sempre Avanti. Trascorse un breve periodo a Napoli, nel 1916 (testimoniato da alcune poesie, per esempio Natale: "Non ho voglia / di tuffarmi / in un gomitolo di strade...") [5]



Ungaretti durante il servizio militare
Nella primavera del 1918 il reggimento al quale apparteneva Ungaretti andò a combattere in Francia nella zona di Champagne.
Tra le due guerre
Al termine della guerra il poeta rimase a Parigi dapprima come corrispondente del giornale Il Popolo d'Italia, ed in seguito come impiegato all'ufficio stampa dell'ambasciata italiana.
Nel 1919 venne stampata a Parigi la raccolta di poesie francesi La guerre, che sarà poi inserita nella seconda raccolta di poesie Allegria di naufragi pubblicata a Firenze nello stesso anno.
Nel 1920 il poeta sposò Jeanne Dupoix, dalla quale avrà due figli, Anna Maria (o Anna-Maria, come soleva firmare, con trattino alla francese), detta Ninon (17 febbraio 1925) e Antonietto (19 febbraio 1930).[6]
Nel 1921 si trasferì a Marino (Roma) e collaborò all'Ufficio stampa del Ministero degli Esteri. Gli anni venti segnarono un cambiamento nella vita privata e culturale del poeta. Egli aderì al fascismo firmando il Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925.
In questi anni egli svolse una intensa attività su quotidiani e riviste francesi (Commerce e Mesures) e italiane (sulla La Gazzetta del Popolo), e realizzò diversi viaggi in Italia e all'estero per varie conferenze, ottenendo nel frattempo vari riconoscimenti di carattere ufficiale, come il Premio del Gondoliere. Furono questi anche gli anni della maturazione dell'opera Sentimento del Tempo; prime pubblicazioni di alcune sue liriche avvennero su L'Italia letteraria e Commerce. Nel 1923 venne ristampato Il porto sepolto presso La Spezia, con una sbrigativa prefazione di Benito Mussolini, che aveva conosciuto nel 1915, durante la campagna dei socialisti interventisti.[7]
Nel 1928 maturò invece la sua conversione religiosa, evidente nell'opera Sentimento del Tempo.
A partire dal 1931 ebbe l'incarico di inviato speciale per La Gazzetta del Popolo e si recò in Egitto, in Corsica, in Olanda e nell'Italia meridionale, raccogliendo il frutto delle esperienze vissute in Il povero nella città (che sarà pubblicato nel 1949), e nella sua rielaborazione Il deserto e dopo, che vedrà la luce solamente nel 1961. Nel 1933 il poeta aveva raggiunto il massimo della sua fama.
Nel 1936, durante un viaggio in Argentina su invito del Pen Club, gli venne offerta la cattedra di letteratura italiana presso l'Università di San Paolo del Brasile, che Ungaretti accettò; trasferitosi con tutta la famiglia, vi rimarrà fino al 1942. A San Paolo nel 1939 morirà il figlio Antonietto, all'età di nove anni, per un'appendicite mal curata, lasciando il poeta in uno stato di grande prostrazione interiore, evidente in molte delle poesie raccolte ne Il Dolore del 1947 e in Un Grido e Paesaggi del 1952.
La seconda guerra mondiale e il dopoguerra
Nel 1942 Ungaretti ritornò in Italia e venne nominato Accademico d'Italia e «per chiara fama» professore di letteratura moderna e contemporanea presso l'Università di Roma, ruolo che mantenne fino al 1958 e poi, come "fuori ruolo", fino al 1965. Intorno alla sua cattedra si formarono alcuni intellettuali che in seguito si sarebbero distinti per importanti attività culturali e notevoli carriere accademiche, come Leone Piccioni, Luigi Silori, Mario Petrucciani, Guido Barlozzini, Raffaello Brignetti, Ornella Sobrero, Elio Filippo Accrocca.
A partire dal 1942 la casa editrice Mondadori iniziò la pubblicazione dell' opera omnia di Ungaretti, intitolata Vita di un uomo. Nel secondo dopoguerra Ungaretti pubblicò nuove raccolte poetiche, dedicandosi con entusiasmo a quei viaggi che gli davano modo di diffondere il suo messaggio, e ottenendo significativi premi come il Premio Montefeltro nel 1960 e il Premio Etna-Taormina nel 1966.
Gli ultimi anni
In Italia raggiunse una certa notorietà presso il grande pubblico nel 1968, grazie alle sue intense letture televisive di versi dell' Odissea (che precedevano la nota versione italiana del poema omerico per il piccolo schermo, a cura del regista Franco Rossi).
Nel 1958 ricevette la cittadinanza onoraria di Cervia [8]. Nel 1969 fondò l'associazione Rome et son histoire.[9]
Nella notte tra il 31 dicembre 1969 e il 1º gennaio 1970 scrisse l'ultima poesia, L'Impietrito e il Velluto, pubblicata in una cartella litografica il giorno dell'ottantaduesimo compleanno del poeta.
Nel 1970 conseguì un prestigioso premio internazionale dell'Università dell'Oklahoma, negli Stati Uniti, dove si recò per il suo ultimo viaggio che debilitò definitivamente la sua pur solida fibra. Morì a Milano nella notte tra il 1º e il 2 giugno 1970 per broncopolmonite. Il 4 giugno si svolse il suo funerale a Roma, nella Chiesa di San Lorenzo fuori le Mura, ma non vi partecipò alcuna rappresentanza ufficiale del Governo italiano. È sepolto nel Cimitero del Verano accanto alla moglie Jeanne.
Poetica

L'Allegria segna un momento chiave della storia della letteratura italiana: Ungaretti rielabora in modo molto originale il messaggio formale dei simbolisti (in particolare dei versi spezzati e senza punteggiatura dei Calligrammes di Guillaume Apollinaire), coniugandolo con l'esperienza atroce del male e della morte nella guerra. Al desiderio di fraternità nel dolore si associa la volontà di ricercare una nuova "armonia" con il cosmo[10] che culmina nella citata poesia Mattina (1917), o in Soldati. Questo spirito mistico-religioso si evolverà nella conversione in Sentimento del Tempo e nelle opere successive, dove l'attenzione stilistica al valore della parola (e al recupero delle radici della nostra tradizione letteraria), indica nei versi poetici l'unica possibilità dell'uomo, o una delle poche possibili, per salvarsi dall' "universale naufragio".
Il momento più drammatico del cammino di questa vita d'un uomo (così, come un "diario", definisce l'autore la sua opera complessiva) è sicuramente raccontato ne Il Dolore: la morte in Brasile del figlioletto Antonio, che segna definitivamente il pianto dentro del poeta anche nelle raccolte successive, e che non cesserà più d'accompagnarlo. Solo delle brevi parentesi di luce gli sono consentite, come la passione per la giovanissima poetessa brasiliana Bruma Bianco, o i ricordi d'infanzia ne I Taccuini del Vecchio, o quando rievoca gli sguardi d'universo di Dunja, anziana tata che la madre aveva accolto nella loro casa d'Alessandria:[11]
« Il velluto dello sguardo di Dunja
Fulmineo torna presente pietà »
(da L'Impietrito e il Velluto, 1970)
La fortuna di Ungaretti

La poesia di Ungaretti creò un certo disorientamento sin dalla prima apparizione del Porto Sepolto. A essa arrisero i favori sia degli intellettuali del La Voce, sia degli amici francesi, da Guillaume Apollinaire ad Aragon, che vi riconobbero la comune matrice simbolista. Non mancarono polemiche e vivaci ostilità da parte di molti critici tradizionali e del grande pubblico. Non la compresero, per esempio, i seguaci di Benedetto Croce, che ne condannarono il frammentismo.
A riconoscere in Ungaretti il poeta che per primo era riuscito a rinnovare formalmente e profondamente il verso della tradizione italiana, furono soprattutto gli ermetici, che, all'indomani della pubblicazione del Sentimento del tempo, salutarono in Ungaretti il maestro e precursore della propria scuola poetica, iniziatore della poesia «pura». Da allora la poesia ungarettiana ha conosciuto una fortuna ininterrotta. A lui, assieme a Umberto Saba e Eugenio Montale, hanno guardato, come un imprescindibile punto di partenza, molti poeti del secondo Novecento.
Opere principali

Poesia
II Porto Sepolto, Stabilimento tipografico friulano, Udine, 1917;
Allegria di naufragi, Vallecchi, Firenze, 1919;
Il Porto Sepolto Stamperia Apuana, La Spezia, 1923;
L'Allegria, Preda, Milano, 1931;
Sentimento del Tempo, Vallecchi, Firenze, 1933;
La guerra, I edizione italiana, Milano, 1947;
Il Dolore, Milano, 1947;
Demiers Jours. 1919, Milano, 1947;
Gridasti: Soffoco..., Milano, 1950;
La Terra Promessa, Milano, 1950;
Un grido e Paesaggi, Milano, 1952;
Les Cinq livres, texte francais etabli par l'auteur et Jean Lescure. Quelques reflexions de l'auteur, Paris, 1954;
Poesie disperse (1915-1927), Milano, 1959;
Il Taccuino del Vecchio, Milano, 1960;
Dialogo, Milano, 1968;
Vita d'un uomo. Tutte le poesie, Milano, 1969.
Prosa e saggistica
II povero nella città, Milano, 1949;
Il Deserto e dopo , Milano, 1961;
"Vita di un poeta. Giuseppe Ungaretti.", di Leone Piccioni, Rizzoli 1974.
Saggi e interventi, a cura di M. Diacono e L. Rebay, Milano, 1974;
La critica e Ungaretti, di G.Faso, Cappelli, Bologna, 1977;
Invenzione della poesia moderna, Lezioni brasiliane di letteratura (1937-1942) , a cura di P. Montefoschi, Napoli, 1984;
"Vita di Giuseppe Ungaretti", di Walter Mauro, Anemone Purpurea editrice, Roma, 2006;
Traduzioni
Traduzioni, Roma, 1936;
22 Sonetti di Shakespeare, Roma, 1944;
40 Sonetti di Shakespeare, Milano, 1946;
Da Góngora e da Mallarmé, Milano, 1948;
Fedra di Jean Racine, Milano, 1950;
Visioni di William Blake, Milano, 1965.
Epistolari
Lettere a Soffici, 1917/1930, Napoli, 1983;
Lettere a Enrico Pea, Milano, 1984;
Carteggio 1931/1962, Milano, 1984;
Lettere a Giovanni Papini 1915-1948, Milano, 1988.

GIOVANNI VERGA

Giovanni Carmelo Verga (Vizzini, 2 settembre 1840 – Catania, 27 gennaio 1922) fu uno scrittore italiano, considerato il maggior esponente della corrente letteraria del verismo.
Indice [nascondi]
1 Biografia
1.1 La polemica sul luogo e sulla data di nascita
1.2 Gli studi e la prima formazione
1.3 Le prime esperienze a Catania
1.4 Gli anni fiorentini
1.5 Il ventennio a Milano
1.6 Il ritorno a Catania
2 Opere
2.1 Romanzi
2.2 Novelle
2.3 Trasposizioni teatrali
2.4 Versioni cinematografiche
3 Note
4 Bibliografia
4.1 Biografie
4.2 Studi sull'opera
5 Voci correlate
6 Altri progetti
7 Collegamenti esterni
Biografia [modifica]

Giovanni Verga nacque il 2 settembre 1840: fu registrato all'anagrafe di Catania, anche se alcuni sostengono che sia nato in contrada Tièpidi, nel territorio di Vizzini, dove la famiglia si trovava per evitare l'epidemia di colera che affliggeva Catania. In tale contrada la famiglia Verga possedeva una tenuta di villeggiatura. Il padre, Giovanni Battista Catalano, era di Vizzini, dove la famiglia Verga aveva delle proprietà, e discendeva dal ramo cadetto di una famiglia alla quale appartenevano i baroni di Fontanabianca; la madre si chiamava Caterina Di Mauro e apparteneva ad una famiglia borghese di Catania. Il nonno di Giovanni, come testimonia il De Roberto[1] in un articolo raccolto, insieme a molti altri, in un volume a cura di Carmelo Musumarra, era stato carbonaro e, nel 1812, eletto deputato per Vizzini al primo Parlamento Siciliano.[2]
La polemica sul luogo e sulla data di nascita [modifica]
Rappresenta da sempre motivo di acceso dibattito la questione riguardante l'esatto luogo di nascita di Giovanni Verga, nonché la data dell'evento. Benché gran parte dei testi collochino a Catania l'evento, basandosi sul contenuto dell'atto di nascita, esistono fondate argomentazioni sulla base delle quali è possibile ritenere che la nascita di Verga sia avvenuta nei pressi di Vizzini.
Tra gli studiosi che più di altri si appassionarono e dedicarono numerose ricerche alla soluzione di questo interrogativo, vi sono il prof. Emilio Interlandi (docente di lettere, critico, scrittore e acuto polemista) e l'avv. Alfredo Mazzone (giornalista, drammaturgo e scrittore, particolarmente attivo in ambito teatrale). Quest'ultimo, in particolare, fu autore di un saggio dal titolo Polemiche Verghiane (Edigraf Catania, 1971), dedicato per metà proprio all'indagine sul luogo e la data di nascita di Giovanni Verga. L'opera è supportata dai molti articoli scritti sull'argomento dal prof. Interlandi e citati integralmente.
La tesi secondo cui Verga nacque in un podere di campagna, di proprietà dello zio don Salvatore, in contrada Tièpidi (una zona di campagna a pochi chilometri dal centro abitato di Vizzini, citata dall'autore verista nei suo scritti col nome di Tebidi o Tèpidi) è suffragata da diverse constatazioni. La prima riguarda l'epidemia di colera che nell'estate del 1840 si era abbattuta su Catania e che avrebbe spinto la famiglia Verga (già abituata ad abbandonare l'afosa Catania d'estate per la frescura collinare di Vizzini) a scegliere il piccolo centro del Calatino per proteggere sia la madre sia il nascituro da ogni potenziale rischio. Nato prematuro, di 7 mesi, il piccolo sarebbe poi stato riportato nel capoluogo etneo poiché l'epidemia, nel frattempo, si era spostata nelle campagne vizzinesi.
La seconda constatazione riguarda il numero dell'atto di nascita con il quale il padre, Giovanni Battista Verga (originario di Vizzini ma residente nel capoluogo), registrò il figlio come nato a Catania, nell'abitazione di via Sant'Anna. Il documento riporta infatti il numero 284 ter, prova del fatto che si tratta di un atto interposto (insieme al 284 bis). Stranamente, l'atto fu sottoscritto scegliendo come testimoni l'usciere Michele Dell'Acqua (58 anni) e l'analfabeta guardia marina Alfio Murabito (70 anni), anziché due parenti o amici di famiglia. È probabile, inoltre, che Giovanni Battista Verga scelse Catania anche per compiacere la moglie Caterina Di Mauro (o Mauro), catanese, e per comodità, visto che la futura eventuale richiesta di certificazioni avrebbe necessitato un viaggio nella distante Vizzini.
La terza constatazione è relativa a un'annotazione apposta sull'occhiello di una copia della prima edizione delle Novelle Rusticane, che Verga regalò all'amico scrittore Luigi Capuana. Si legge:
« A Luigi Capuana "villano" di Mineo - Giovanni Verga "villano" di Vizzini. »
Sebbene secondo Corrado Di Blasi, curatore della biblioteca Capuana, la nota esatta sarebbe
« A Luigi Capuana da Mineo Giovanni Verga da Vizzini o quasi "villani entrambi". »
l'uso del termine villani dimostrerebbe, comunque, come Verga fosse a conoscenza di essere nato in un piccolo paese di provincia (come Capuana), a Vizzini o quasi, appunto in una contrada di campagna, e pertanto villano.
Infine lo stesso Verga, in molte delle sue missive a diversi interlocutori, si dimostra schivo nell'affrontare l'argomento, segno che, effettivamente, anche in lui esiste la consapevolezza che Catania come luogo di nascita è una dichiarazione più che dubbia. Non è da trascurare, inoltre, che molti amici personali dell'epoca (lo scienziato geologo Ippolito Cafici, il chirurgo on. Gesualdo Costa, il prof. comm. Luigi La Rocca e l'avv. Giovanni Selvaggi) sostenevano, per conoscenza diretta, che Verga fosse nato nelle campagne di Vizzini.
Sull'esatta data di nascita l'incertezza è altrettanto ampia. L'atto di nascita (Archivio generale del Municipio di Catania, volume anno 1840, sezione II, pagina 284 ter) riporta la data del 2 settembre 1840. Il Verga, l'1 marzo 1915, scrive però in una sua missiva a Benedetto Croce:
« Illustre amico, sono stato al Municipio per avere la data precisa che desidera conoscere: 31 agosto 1840, Catania. Io invece credevo fosse il 2, oppure l'8 settembre dello stesso anno. Eccomi dunque più vecchio di una settimana, ma sempre con grande stima ed affetto per Lei. »
L'8 settembre è in realtà la data di battesimo, mentre quella di nascita è probabilmente antecedente e potrebbe risalire alla fine di agosto, se non addirittura il 29, giorno in cui a Vizzini si festeggia San Giovanni. Il trasferimento da Vizzini a Catania giustificherebbe dunque il ritardo nella registrazione e la posticipazione della data.
Gli studi e la prima formazione [modifica]


La Casa-Museo di Verga a Catania.
Verga, compiuti gli studi primari presso la scuola di Francesco Carrara, venne inviato, per gli studi secondari alla scuola di don Antonino Abbate, scrittore, fervente patriota e repubblicano, dal quale assorbì il gusto letterario romantico ed il Patriottismo. Abbate faceva leggere ai suoi allievi le opere di Dante, Petrarca, Ludovico Ariosto, Torquato Tasso, Vincenzo Monti, Manzoni e pagine dell'Estetica di Hegel; inoltre proponeva anche il romanzo storico-patriottico I tre dell'assedio di Torino (scritto nel 1847) del poeta catanese Domenico Castorina, che era lontano parente di Verga e che a quei tempi "era considerato dai contemporanei il miglior poeta e scrittore catanese della prima metà dell'Ottocento".[3]
Nel 1854, a causa d'una epidemia di colera, la famiglia si rifugiò nella campagna di Tèbidi e vi ritornerà nel 1855 per lo stesso motivo. I ricordi di questo periodo, legati alle sue prime esperienze adolescenziali e alla campagna, ispireranno molte delle sue novelle, come Cavalleria rusticana e Jeli il pastore, oltre al romanzo Mastro don Gesualdo. A soli quindici anni, tra il 1856 ed il 1857, Verga scrisse il suo primo romanzo d'ispirazione risorgimentale Amore e patria rimasto inedito. Il romanzo infatti ottenne giudizio positivo da parte dell'Abbate, ma venne considerato immaturo dall'insegnante di latino, don Mario Torrisi, che lo convinse a non pubblicarlo. Iscrittosi nel 1858 alla Facoltà di legge all'Università di Catania, non dimostrò però grande interesse per le materie giuridiche e nel 1861 abbandonò i corsi, preferendo dedicarsi all'attività letteraria e al giornalismo politico. Con il denaro datogli dal padre per concludere gli studi, il giovane pubblicò a sue spese il romanzo I carbonari della montagna (1861- 1862), un romanzo storico che si ispira alle imprese della Carboneria calabrese contro il dispotismo napoleonico di Murat. La sua fu dunque una formazione irregolare che, come scrive Guido Baldi,[4] "... segna inconfondibilmente la sua fisionomia di scrittore, che si discosta dalla tradizione di scrittori letteratissimi e di profonda cultura umanistica che caratterizza la nostra letteratura, anche quella moderna: i testi su cui si forma il suo gusto in questi anni, più che i classici italiani e latini sono gli scrittori francesi moderni di vasta popolarità, ai limiti con la letteratura di consumo, come Dumas padre (I tre moschettieri) e figlio (La signora delle camelie), Sue (I misteri di Parigi), Feuillet (Il romanzo di un giovane povero)". Oltre a questo genere di romanzi egli prediligeva i romanzi storici italiani, soprattutto quelli a carattere fortemente romantico, come quelli di Guerrazzi la cui influenza si coglie anche nel suo terzo romanzo, pubblicato nel 1863, dapprima a puntate sulle appendici della rivista fiorentina La nuova Europa, intitolato Sulle lagune, nel periodo in cui, ottenuta ormai l'Italia l'indipendenza, Venezia è ancora sotto la potenza austriaca. Il romanzo narra la vicenda sentimentale di un ufficiale austriaco con una giovane veneziana in uno stile severo e privo di retorica. Entrambi innamorati della vita finiranno per morire insieme. Verga lavorò in questo periodo frequentemente anche ad Acitrezza ed Acicastello.
Le prime esperienze a Catania [modifica]
In Sicilia si verificò un periodo di violente sommosse popolari per l'abolizione del dazio sul macinato e, soprattutto nella provincia catanese, si assistette alla reazione dei contadini che, esasperati, arrivarono ad uccidere e a saccheggiare le terre. Sarà Nino Bixio che, con la forza, riuscirà a riportare l'ordine. Nella novella Libertà, il Verga rivive con forza drammatica una di queste rivolte, quella di Bronte.
« Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: "Viva la libertà!". Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche, le scuri e le falci che luccicavano[5]. »
Con l'arrivo di Garibaldi a Catania venne istituita la Guardia Nazionale e il Verga, nel 1860, si arruolò in essa prestando servizio per circa quattro anni ma, non avendo inclinazioni per la disciplina militare, se ne liberò con un versamento di 3.100 lire (equivalenti a circa 1.30 euro attuali[senza fonte])[6] alla Tesoreria Provinciale. Nel frattempo, insieme a Nicolò Niceforo, conosciuto con lo pseudonimo di Emilio Del Cerro, fondò il settimanale Roma degli Italiani, che si basava su una programma anti-regionale, e lo diresse per tre mesi oltre a collaborare alla rivista L'Italia contemporanea. Il settimanale passerà in seguito sotto la direzione di Antonino Abate.
Nel 1862, Verga e Niceforo ritentano l'esperienza con la rivista letteraria L'Italia contemporanea sulla quale il Verga pubblica la sua prima novella verista, Casa da thè. La rivista però ha breve durata e, dopo il primo numero, viene assimilata da Enrico Montazio alla rivista fiorentina Italia, veglie letterarie.
Anche il giornale l'Indipendente, fondato e diretto da Verga sempre nel '62, venne, dopo dieci numeri, lasciato alla direzione dell'Abate. In quello stesso anno Verga pubblicò su la Nuova Europa le prime due puntate del romanzo Sulle lagune che verranno sospese per un anno e infine riprese dall'inizio e terminate il 15 marzo 1863 dopo 22 puntate.
Gli anni fiorentini [modifica]
Nel 1865 si recò per la prima volta, lasciando la provincia, a Firenze e vi rimase dal 13 gennaio fino al 14 maggio. In questo periodo scrisse una commedia, che è stata pubblicata solo nel 1980, dal titolo I nuovi tartufi, che venne inviata, sotto forma anonima, al Concorso Drammatico bandito dalla Società d'incoraggiamento all'arte teatrale ma senza successo e il romanzo Una peccatrice.
Firenze era a quei tempi la capitale del Regno e rappresentava il punto d'incontro degli intellettuali italiani e il giovane Verga avrà modo di conoscere, in questo primo breve periodo, Luigi Capuana, allora critico della Nazione, i pittori Michele Rapisardi e Antonino Gandolfo, il maestro Giuseppe Perrotta e il poeta Mario Rapisardi.
A Firenze ritornerà nell'aprile 1869 dopo che la nuova epidemia di colera diffusasi nel 1867 l'aveva costretto, insieme alla famiglia, a trovare rifugio dapprima nelle proprietà di Sant'Agata li Battiati e poi a Trecastagni.
A Firenze, dove rimarrà fino al 1871, decise quindi di stabilirsi avendo compreso che la sua cultura provinciale era troppo restrittiva e che gli impediva di realizzarsi come scrittore.
Nel 1866 l'editore torinese Negro gli aveva intanto pubblicato Una peccatrice, un romanzo di carattere autobiografico e fortemente melodrammatico, che narra la vicenda di un piccolo borghese catanese che, pur avendo ottenuto la ricchezza e il successo, si suicida per amore di una donna.
Gli anni fiorentini saranno fondamentali per la formazione del giovane scrittore che avrà modo di conoscere artisti, musicisti, letterati e uomini politici oltre che frequentare i salotti più conosciuti del momento.
Con una lettera di presentazione di Mario Rapisardi si introdusse facilmente in casa dello scrittore e patriota Francesco Dall'Ongaro dove incontra Giovanni Prati, Aleardo Aleardi, Andrea Maffei e Arnaldo Fusinato.
Introdotto dal Dall'Ongaro presso i salotti culturali di Ludmilla Assing e delle signore Swanzberg, madre e figlia entrambe pittrici, conobbe Vittorio Imbriani e altri letterati. Iniziò quindi a condurre una vita mondana frequentando il Caffè Doney, dove conosce letterati e attori, il Caffè Michelangelo luogo d'incontro dei pittori macchiaioli più noti dell'epoca e recandosi spesso alla sera a teatro.
Risale a questo periodo la stesura del romanzo epistolare Storia di una capinera che apparve nel 1870 sul giornale di moda Il Corriere delle Dame e che l'anno seguente verrà pubblicato, per interessamento del Dall'Ongaro, dalla tipografia Lampugnani di Milano. La prefazione al romanzo venne scritta dal Dall'Ongaro che riportava la lettera da lui scritta a Caterina Percoto per presentarle il libro. Il romanzo ebbe un gran successo e il Verga incominciò ad ottenere i suoi primi guadagni.
Il ventennio a Milano [modifica]
Il 20 novembre 1872 Verga si trasferì a Milano dove si fermerà, pur con diversi e lunghi ritorni a Catania, fino al 1893. Lo presenteranno l'amico Capuana con una lettera per il romanziere Salvatore Farina direttore della Rivista minima e il Dall'Ongaro con una al pittore e scrittore Tullio Massarani.
A Milano frequenterà in modo assiduo il salotto Maffei dove conosce i maggiori rappresentanti del secondo romanticismo lombardo e si incontra con l'ambiente degli scapigliati, legando soprattutto con Arrigo Boito, Emilio Praga e Luigi Gualdo.
Frequentando i ristoranti, come il Cova e il Savini, ritrovo di scrittori e artisti, conosce Gerolamo Rovetta, Giuseppe Giacosa, Emilio Treves e il Felice Cameroni con il quale intreccerà una fitta corrispondenza epistolare molto interessante sia per le opinioni sul verismo e sul naturalismo espresse, sia per i giudizi dati sulla narrativa contemporanea, da Zola a Flaubert, a D'Annunzio. Conoscerà inoltre il De Roberto con il quale sarà amico per tutta la vita.
Gli anni milanesi saranno ricchi di esperienze e favoriranno la nuova poetica dello scrittore. Risalgono a questi anni Eva (1873), Nedda (1874), Eros e Tigre reale (1875).
Lo scrittore intanto si era avvicinato ad autori nuovi per tematiche e forme, come Zola, Flaubert, Balzac, Maupassant, Daudet, Bourget, e aveva iniziato un abbozzo del romanzo I Malavoglia.
Nel 1876 verrà pubblicata dall'editore Brigola una raccolta di novelle, Primavera e altri racconti, che erano precedentemente apparsi sulle riviste Illustrazione italiana e Strenna italiana, che presentano stile e soggetto diversi dai precedenti scritti.
Nel 1878 apparve sulla rivista Il Fanfulla la novella Rosso Malpelo e nel frattempo egli iniziò a scrivere Fantasticheria.
Risale a questi anni il progetto, annunciato in una lettera del 21 aprile all'amico Salvatore Paola Verdura,[7] di scrivere un ciclo di cinque romanzi, Padron 'Ntoni, Mastro-don Gesualdo, La Duchessa delle Gargantas, L'onorevole Scipioni, L'uomo di lusso, che in origine avrebbero dovuto essere titolati la Marea per poi essere cambiati in I vinti, che, nell'intenzione del Verga, dovevano rappresentare ogni strato sociale, da quello più umile a quello più aristocratico e sarà questo "l'inizio della più felice e fervida stagione narrativa dello scrittore catanese".[8]
Il 5 dicembre 1878 Verga ritornò a Catania in seguito alla morte della madre e farà seguito un lungo periodo di depressione. In luglio lasciò Catania e, dopo essere stato a Firenze ritornò a Milano dove ricomincerà, con maggior fervore, a scrivere. Nell'agosto 1879 uscirà Fantasticherie sul Fanfulla della domenica e, nello stesso anno, scriverà Jeli il pastore oltre a pubblicare, su diverse riviste, alcune novelle di Vita dei campi che vedrà la luce presso l'editore Treves nel 1880.
Nel 1881 apparve sul numero di gennaio della Nuova Antologia l'episodio tratto da I Malavoglia che narra della tempesta con il titolo Poveri pescatori e, nello stesso anno, verrà pubblicato da Treves il romanzo che sarà però accolto molto freddamente dalla critica come confesserà il Verga stesso all'amico Capuana in una lettera dell'11 aprile da Milano: "I Malavoglia hanno fatto fiasco, fiasco pieno e completo. Tranne Boito e Gualdo, che ne hanno detto bene, molti, Treves il primo, me ne hanno detto male".[9]
Nel 1882, oppresso da bisogni economici, pubblicò presso l'editore Treves il romanzo "Il marito di Elena" dove verranno ripresi i temi erotico-mondani della prima maniera anche se con una più accurata indagine psicologica.
Risale a questo periodo la stesura delle future "Novelle rusticane" che verranno pubblicate man mano su alcune riviste.
Durante la primavera lo scrittore si recò a Parigi dove incontrerà lo scrittore svizzero di lingua francese Louis Edouard Rod, conosciuto l'anno precedente, che nel 1887 pubblicherà I Malavoglia nella traduzione francese. Dopo Parigi compì un altro viaggio a Médan per vedere Zola e a giugno si recò a Londra. Alla fine dell'anno, ma con data 1883, pubblicò la raccolta di dodici novelle con il titolo Novelle rusticane dove si fa predominante il tema della "roba". Lavorava intanto intensamente ai racconti Per le vie, iniziati l'anno precedente, che saranno pubblicati sul Fanfulla della domenica, nella Domenica letteraria e sulla Cronaca bizantina e da Treves nello stesso anno.
Il 1884 sarà caratterizzato dall'esordio teatrale dello scrittore che, adattando la novella omonima apparsa in Vita dei campi, mise in scena Cavalleria rusticana che verrà rappresentata il 14 gennaio 1884 dalla compagnia di Cesare Rossi al Teatro Carignano di Torino e avrà come attori Eleonora Duse nella parte di Santuzza e Flavio Andò nella parte di Turiddu. Il dramma, come già aveva intuito il Giacosa che aveva seguito il lavoro del Verga, ottenne un grande successo.
Confortato da ciò, Verga preparò un'altra commedia adattando una novella di Per le vie, Il canarino del n. 15, e il 16 maggio 1885, con il titolo In portineria, essa venne rappresentata a Milano al Teatro Manzoni, senza però ottenere il successo di quella precedente.
Il ritorno a Catania [modifica]
Afflitto da una grave crisi psicologica dovuta alle preoccupazioni di carattere finanziario e dal fatto che non riusciva a portare avanti come voleva il "Ciclo dei Vinti", decise di ritornare in Sicilia. Nel 1887 uscì, presso l'editore Barbèra di Firenze, la raccolta Vagabondaggio.
Gli anni tra l'86 e l'87 li trascorse lavorando, ampliandole, alle novelle pubblicate dal 1884 in poi per la raccolta "Vagabondaggio" che uscirà nel 1887 presso l'editore Barbèra.
Nel 1888 soggiornò per un periodo di alcuni mesi a Roma e all'inizio dell'estate ritornò in Sicilia e, tranne alcuni soggiorni a Roma, vi rimase fino al novembre del 1890. Terminata nel frattempo la prima stesura del romanzo "Mastro don Gesualdo", esso venne pubblicato a puntate sulla rivista La Nuova Antologia.
Durante il 1889 si dedicò completamente alla revisione del Mastro don Gesualdo che venne dato alle stampe, da Treves, a fine anno ottenendo una buona accoglienza sia dal pubblico sia dalla critica.
Lo scrittore, rincuorato dal buon successo del romanzo, progettò di continuare il "Ciclo" con la "Duchessa di Leyra" e "L'Onorevole Scipione" mentre continuò la pubblicazione delle novelle che faranno poi parte delle due ultime raccolte.
L'8 aprile 1890, al Teatro Costanzi di Roma, venne intanto messa in scena Mala Pasqua tratta dalla novella dello scrittore che però non ottenne un gran successo. Solo un mese dopo venne rappresentata, nello stesso teatro, l'opera Cavalleria rusticana musicata da Pietro Mascagni riscuotendo grande applauso di pubblico e di critica.
L'opera continuò ad essere rappresentata con sempre maggior successo e il Verga chiese al musicista e all'editore, come da accordi pattuiti, la parte di guadagno per i diritti d'autore. Gli verrà offerta una modesta cifra, 1.000 lire che il Verga non volle accettare. Rivoltosi alla "Società degli autori" che si dimostrò solidale con lo scrittore, egli sarà però costretto ad agire attraverso vie legali. "Ha inizio così nel 1891 una complessa vicenda giudiziaria che sembra concludersi, il 22 gennaio 1893, allorché Verga accetta, una tantum, la somma di lire 143.000 come "compensazione finale".[10]
Nel 1891 erano intanto usciti presso l'editore Treves "I ricordi del capitano d'Arce" e nel 1894 "Don Candeloro e C.i".
Nel 1893 lo scrittore si trasferì definitivamente a Catania dove, a parte qualche breve viaggio a Milano e a Roma, vi rimase fino alla morte.
Nel 1895 iniziò minuziose indagini di costume che affermava necessarie per il terzo romanzo dei "Cicli dei vinti", "La duchessa di Leyda", che però non terminò mai (ci rimangono solamente il primo capitolo e un frammento del secondo).
Da alcuni anni lo scrittore aveva intanto intrapreso una relazione con la pianista Dina Castellazzi contessa di Sordevo che durò tutta la vita, anche se la riluttanza del Verga al matrimonio ridusse la relazione amorosa ad una affettuosa amicizia.
Presso Treves, vennero pubblicati nel 1896 i drammi "La Lupa", "In portineria", "Cavalleria rusticana". "La Lupa" venne rappresentata con successo sulle scene del Teatro Gerbin di Torino e a metà dell'anno lo scrittore ricominciò a lavorare alla "Duchessa di Leyra".
Sulla rivista di Catania "Le Grazie", il 1º gennaio 1897, venne pubblicata la novella intitolata "La caccia al lupo" e l'editore Treves pubblicò una nuova versione di "Vita dei campi", con le illustrazioni di Arnaldo Ferraguti che presentava notevoli cambiamenti se confrontata all'edizione del 1880.
Sembra intanto proseguire "assiduamente" la stesura della "Duchessa di Leyra", come si apprende da una lettera scritta all'amico Edouard Rod nel 1898, notizia confermata dalla "Nuova Antologia" che ne annuncia la prossima pubblicazione.[11]
Nel 1901 furono rappresentati i bozzetti "La caccia al lupo" e "La caccia alla volpe" al teatro Manzoni di Milano e gli stessi saranno pubblicati nel 1902 dall'editore Treves.
Alla morte del fratello Pietro, avvenuta nel 1903, il Verga ebbe in affido i figli. Nel novembre dello stesso anno venne rappresentato, sempre al teatro Manzoni, il dramma "Dal tuo al mio" che uscirà solamente nel 1905 a puntate su "La Nuova Antologia" e vedrà le stampe, ancora da Treves, nel 1906.


Una fotografia scattata da Verga: La Sicilia rurale
Lontano ormai dalla scena letteraria, il Verga rallentò notevolmente la sua attività di scrittore per dedicarsi in modo assiduo alla cura delle sue terre anche se, come abbiamo notizia da una lettera all'amico Rod del 1º gennaio 1907, egli continuava a lavorare alla "Duchessa di Leyra" del quale vedrà la luce un solo capitolo pubblicato postumo in "La Letteratura" a cura del De Roberto il 1º giugno 1922. Al De Roberto lo scrittore affidò, tra il 1912 e il 1914, la sceneggiatura cinematografica di alcune delle sue opere ed egli stesso provvedette alla riduzione della "Storia di una capinera" e della "Caccia al lupo" allo scopo di farne una versione per il teatro. La sua ultima novella, intitolata "Una capanna e il tuo cuore", risale al 1919 e fu pubblicata anch'essa postuma, il 12 febbraio 1922 sull'"Illustrazione italiana", mentre nel 1920 verrà pubblicata una edizione riveduta delle "Novelle rusticane" a Roma sulla rivista La Voce.
Nel luglio di quell'anno, per gli ottanta anni dello scrittore, si tennero a Roma le onoranze presso il Teatro "Valle" alla presenza dell'allora Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce e il discorso ufficiale fu ottenuto da Luigi Pirandello. Sempre in quell'anno Verga ricevette la nomina di senatore del Regno.
Il 24 gennaio 1922, colto da ictus, non riprese conoscenza e il 27 gennaio morì a Catania nella casa di Sant'Anna assistito dai nipoti e dall'amico De Roberto.


Autografo di G. Verga[12]
Opere [modifica]

Romanzi [modifica]
Amore e Patria (1856-1857) (il romanzo, tranne qualche brano pubblicato nel volume di Federico De Roberto, Casa Verga e altri saggi verghiani, a c. di C. Musumarra, Le Monnier, Firenze, 1964, è inedito)
I Carbonari della Montagna, Galatola, Catania, (1861-1862)
Sulle lagune, "La Nuova Europa", (5 e 9 agosto 1862-13 gennaio e 15 marzo 1863)
Una peccatrice, Negro, Torino, (1866)
Storia di una capinera, Lampugnani (editore), Milano, (1871)
Eva, Treves, Milano, (1873)
Eros, Brigola, Milano, (1875)
Tigre reale, Brigola, Milano, (1875)
I Malavoglia, Treves, Milano,(1881)
Il marito di Elena, Treves, Milano, (1882)
Mastro Don Gesualdo, Treves, Milano, (1889)
Dal tuo al mio, Treves, Milano, (1906)
La duchessa di Leyra (incompiuto)
Novelle [modifica]
Nedda, Brigola, Milano, (1874)
Primavera e altri racconti, Brigola, Milano (1876); terza ristampa, presso Treves, Milano, 1877 con il titolo di Novelle
Vita dei campi, Treves, Milano, (1880)
Pane nero, Giannotta, Catania, (1882)
Novelle rusticane, Treves, Milano, (1883)
Per le vie, Treves, Milano, (1883)
Drammi intimi, Sommaruga, Roma, (1884)
Vagabondaggio, Barbera, Firenze, (1887)
I ricordi del capitano d'Arce, Treves, Milano, (1891)
Don Candeloro e C., Treves, Milano, (1894)
Una capanna e il tuo cuore, "Illustrazione italiana", (12 febbraio 1922); postuma

LUIGI PIRANDELLO

Disambiguazione – Se stai cercando altri significati per Pirandello, vedi Pirandello (disambigua).
« Per il suo coraggio e l'ingegnosa ripresentazione dell'arte drammatica e teatrale »
(Motivazione del Premio Nobel)

Luigi Pirandello
Nobel per la letteratura 1934
Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936) fu un drammaturgo, scrittore e poeta italiano, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1934.
Indice [nascondi]
1 Biografia
1.1 La famiglia
1.2 I primi anni
1.3 Il giovane laureato
1.4 Il crollo finanziario
1.5 Il successo
1.6 Pirandello e la politica
1.6.1 Rapporti con il Fascismo
1.6.2 Il rifugio di Soriano nel Cimino
1.7 Dalla Grande Guerra al Nobel
1.8 La morte e il testamento
2 Il pensiero
2.1 L'umorismo
2.2 La crisi dell'io
2.3 Il contrasto tra vita e forma
2.4 Il relativismo psicologico
2.5 L'incomunicabilità
2.6 La reazione al relativismo
2.6.1 Reazione passiva
2.6.2 Reazione ironico – umoristica
2.6.3 Reazione drammatica
3 Teatro
3.1 Prima Fase - Teatro Siciliano
3.2 Seconda fase - Il teatro umoristico
3.3 Terza fase - Il teatro nel teatro
3.4 Il teatro dei miti
4 Romanzi
5 Novelle
6 Poesia
7 Pirandello al cinema
8 Note
9 Bibliografia
10 Voci correlate
11 Altri progetti
12 Collegamenti esterni
Biografia [modifica]

« Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco "Kaos". »
(Luigi Pirandello)
La famiglia [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Biografia del figlio cambiato.
Pirandello, figlio di Stefano e Caterina Ricci Gramitto, appartenenti a famiglie di agiata condizione borghese, dalle tradizioni risorgimentali, nacque nel 1867 in località Càvusu vicino Girgenti, luogo che al momento della sua nascita aveva cambiato la sua denominazione originaria in "Caos".
Nell'imminenza del parto che doveva avvenire a Porto Empedocle, per un'epidemia di colera che stava colpendo la Sicilia, il padre Stefano aveva deciso di trasferire la famiglia in una isolata tenuta di campagna per evitare il contatto con la pestilenza. Porto Empedocle, prima di chiamarsi così, era una borgata (Borgata Molo) di Girgenti (l'odierna Agrigento).
Quando nel 1853 si decise che la borgata divenisse comune autonomo «La linea di confine fra i due comuni venne fissata all'altezza della foce di un fiume essiccato che tagliava in due la contrada chiamata "u Càvuso" o "u Càusu" (pantaloni)...Questo Càvuso apparteneva metà al nuovo comune di Porto Empedocle e l'altra metà al Comune di Girgenti...A qualche impiegato dell'ufficio anagrafe parse che non era cosa [che si scrivesse che qualcuno fosse nato in un paio di pantaloni] e cangiò quel volgare "Càusu" in "Caos"».[1]
Il padre, Stefano Pirandello, aveva partecipato tra il 1860 e il 1862 alle imprese garibaldine; aveva sposato nel 1863 Caterina, sorella di un suo commilitone, Rocco Ricci Gramitto.
Il nonno materno di Luigi, Giovanni Ricci Gramitto, era stato tra gli esponenti di spicco della rivoluzione siciliana del 1848-49 ed escluso dall'amnistia al ritorno del Borbone era fuggito in esilio a Malta dove era morto un anno dopo, nel 1850, a soli 46 anni.[2]
Il nonno paterno, Andrea, era stato un armatore e ricco uomo d'affari di Pra', ora quartiere di Genova. La famiglia di Pirandello viveva in una situazione economica agiata, grazie al commercio e all'estrazione dello zolfo.
I primi anni [modifica]


La casa natale di Pirandello, in località Caos
L'infanzia di Pirandello non fu sempre serena ma, come lui stesso racconterà nel 1935, caratterizzata anche dalla difficoltà di comunicare con gli adulti e in specie con i suoi genitori, in modo particolare con il padre. Questo lo stimolò ad affinare le sue capacità espressive e a studiare il modo di comportarsi degli altri per cercare di corrispondervi al meglio.
Fin da ragazzo soffriva d'insonnia e dormiva abitualmente solo tre ore per notte. [3]
Il giovane Luigi era molto devoto alla Chiesa Cattolica grazie all'influenza che ebbe su lui una serva di famiglia, che lo avvicinò alle pratiche religiose, ma inculcandogli anche credenze superstiziose fino a convincerlo della paurosa presenza degli spiriti. La chiesa e i riti della confessione religiosa gli permettevano di accostarsi ad un'esperienza di misticismo, che cercherà di raggiungere in tutta la sua esistenza.
Si allontanò dalle pratiche religiose per un avvenimento apparentemente di poco conto: un prete aveva truccato un'estrazione a sorte per far vincere un'immagine sacra al giovane Luigi; questi rimase così deluso dal comportamento inaspettatamente scorretto del sacerdote che non volle più avere a che fare con la Chiesa, praticando una religiosità del tutto diversa da quella ortodossa.
Dopo l'istruzione elementare impartitagli da maestri privati, andò a studiare in un istituto tecnico e poi al ginnasio. Qui si appassionò subito alla letteratura. A soli undici anni scrisse la sua prima opera, "Barbaro", andata perduta. Per un breve periodo, nel 1886, aiutò il padre nel commercio dello zolfo, e poté conoscere direttamente il mondo degli operai nelle miniere e quello dei facchini delle banchine del porto mercantile.
Iniziò i suoi studi universitari a Palermo nel 1886, per recarsi in seguito a Roma, dove continuò i suoi studi di filologia romanza che poi, anche a causa di un insanabile conflitto con il rettore dell'ateneo capitolino, dovette completare su consiglio del suo maestro Ernesto Monaci, a Bonn[4] (1889).
A Bonn, importante centro culturale di quei tempi, Pirandello seguì i corsi di filologia romanza ed ebbe l'opportunità di conoscere grandi maestri come Franz Bücheler, Hermann Usener e Richard Förster. Si laureò nel 1891 con una tesi sulla parlata agrigentina "Foni ed evoluzione fonetica del dialetto di Girgenti" (Laute und Lautentwicklung der Mundart von Girgenti), in cui descrisse il dialetto della sua città e quelli dell'intera provincia, che suddivise in diverse aree linguistiche.
Il tipo di studi gli fu probabilmente di fondamentale aiuto nella stesura delle sue opere, dato il raro grado di purezza della lingua italiana utilizzata.
Il giovane laureato [modifica]
Nel 1892 Pirandello si trasferì a Roma, dove poté mantenersi grazie agli assegni mensili inviati dal padre. Qui conobbe Luigi Capuana che lo aiutò molto a farsi strada nel mondo letterario e che gli aprì le porte dei salotti intellettuali dove ebbe modo di conoscere giornalisti, scrittori, artisti e critici.
Nel 1894, a Girgenti, Pirandello sposò Maria Antonietta Portulano, figlia di un ricco socio del padre. Questo matrimonio probabilmente concordato soddisfaceva anche gli interessi economici della famiglia di Pirandello. Nonostante ciò tra i due coniugi nacque veramente l'amore e la passione. Grazie alla dote della moglie, la coppia godeva di una situazione molto agiata, che le permise di trasferirsi a Roma.
Nel 1895, a completare l'amore tra gli sposi, nacque il primo figlio: Stefano, a cui seguirono due anni dopo, Rosalia (1897) e nel 1899 Fausto.
Il crollo finanziario [modifica]
Nel 1904, un allagamento e una frana in una miniera di zolfo del padre, nella quale era stata investita parte della dote di Antonietta, e da cui anche Pirandello e la sua famiglia traevano un notevole sostentamento, li ridusse sul lastrico[5].
Questo avvenimento accrebbe il disagio mentale, già manifestatosi, della moglie di Pirandello, Antonietta. Ella andava sempre più spesso soggetta a crisi isteriche, causate anche dalla gelosia, a causa delle quali o Antonietta rientrava dai genitori in Sicilia, o era Pirandello a esser costretto a lasciare la casa.
Solo diversi anni dopo, nel 1919, egli, ormai disperato, acconsentì che Antonietta fosse ricoverata in un ospedale psichiatrico[5]. La malattia della moglie portò lo scrittore ad approfondire, portandolo ad avvicinarsi alle nuove teorie sulla psicanalisi di Sigmund Freud, lo studio dei meccanismi della mente e ad analizzare il comportamento sociale nei confronti della malattia mentale.
Spinto dalle ristrettezze economiche e dallo scarso successo delle sue prime opere letterarie, e avendo come unico impiego fisso la cattedra di stilistica all'Istituto superiore di magistero femminile (che tenne dal 1897 al 1922)[5], lo scrittore dovette impartire lezioni private[5] di italiano e di tedesco, dedicandosi anche intensamente al suo lavoro letterario. Dal 1909 iniziò anche una collaborazione con il Corriere della Sera.
Il successo [modifica]
Il suo primo grande successo fu merito del romanzo Il fu Mattia Pascal, pubblicato nel 1904 e subito tradotto in diverse lingue. La critica non dette subito al romanzo il successo che invece ebbe tra il pubblico. Numerosi critici non seppero cogliere il carattere di novità del romanzo, come d'altronde di altre opere di Pirandello. Perché Pirandello arrivasse al successo si dovette aspettare il 1922, quando si dedicò totalmente al teatro.
Pirandello e la politica [modifica]
L'idea politica di fondo di Pirandello era legata al patriottismo risorgimentale. Una sua lettera apparsa nel 1915 sul giornale di Sicilia testimonia gli ideali patriottici della famiglia, proprio nei primi mesi dallo scoppio della Grande Guerra.
Nella sua vita condivise alcune delle idee dei giovani Fasci siciliani e del socialismo; ne I vecchi e i giovani si nota come l'idea politica di Pirandello era stata oscurata dalla riflessione "umoristica" sulla vita.
Per Pirandello, i siciliani avevano subìto le peggiori ingiustizie dai vari governi italiani: è questa l'unica idea forte che ci presenta.
Rapporti con il Fascismo [modifica]
Nel 1924 il quotidiano L'Impero pubblica un telegramma inviato da Pirandello a Mussolini:
« Eccellenza, sento che questo è per me il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se l'E.V. mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò come massimo onore tenermi il posto del più utile e obbediente gregario. Con devozione intera »
Nel 1925 Pirandello è tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto da Giovanni Gentile. L'adesione di Pirandello al Fascismo fu alquanto imprevedibile, sorprendendo anche i suoi più stretti amici.
La motivazione più credibile per spiegare tale scelta è che il fascismo lo riconduceva a quegli ideali patriottici e risorgimentali di cui Pirandello era convinto sostenitore, anche per le radici garibaldine del padre. Pirandello vedeva nel Fascismo la prima idea originale post-risorgimentale, che doveva essere la "forma" nuova per l'Italia e divenire modello per l'Europa.
Un'altra motivazione molto più pragmatica è la fondazione della nuova compagnia teatrale: l'iscrizione al partito serviva per poter ricevere il sostegno governativo e le relative sovvenzioni economiche.
In ogni caso non sono infrequenti suoi scontri violenti con autorità fasciste e dichiarazioni aperte di apolicità: « Sono apolitico: mi sento soltanto uomo sulla terra. E, come tale, molto semplice e parco; se vuole potrei aggiungere casto...». [6] Clamoroso è il gesto del 1927, narrato da Corrado Alvaro (e riportato da G. Giudice nel suo saggio), in cui Pirandello a Roma strappa la sua tessera del partito davanti agli occhi esterrefatti del Segretario Nazionale. [7]
Nel 1935, in nome dei suoi ideali patriottici, partecipa alla raccolta dell' "oro per la patria" donando la medaglia del premio Nobel ricevuto l'anno prima.[8] La critica fascista non esaltava le opere di Pirandello considerandole non conformi agli ideali fascisti: vi si vedeva una certa insistenza e considerazione di quella borghesia altolocata che il fascismo formalmente condannava come corrotta e decadente. Gli arzigogoli filosofici dei personaggi dei drammi borghesi pirandelliani erano considerati quanto di più lontano dall'attivismo fascista.
Anche dopo l'attribuzione del Nobel parecchi lavori furono accusati dalla stampa di regime di disfattismo tanto che anche Pirandello finì tra i "controllati speciali" dell'OVRA.[9]
Il rifugio di Soriano nel Cimino [modifica]
Luigi Pirandello amava trascorrere ampi periodi dell'anno nella quiete di Soriano nel Cimino (VT) una amena e bella cittadina ricca di monumenti storici ed immersa nei boschi del Monte Cimino. In particolare Pirandello rimase affascinato dalla maestosità e dalla quiete di uno stupendo castagneto sito nella località di "Pian della Britta", a cui egli volle dedicare una omonima poesia, che oggi è scolpita su una lapide di marmo posta proprio in tale località.
Pirandello ambientò a Soriano nel Cimino (citando luoghi, località e personaggi realmente esistiti) anche due tra le sue più celebri novelle "Rondone e Rondinella" e "Tomassino ed il filo d'erba". A Soriano nel Cimino, è rimasto vivo ancora oggi il ricordo di Pirandello a cui sono dedicati monumenti, lapidi e strade.
Dalla Grande Guerra al Nobel [modifica]
La guerra fu un'esperienza dura per Pirandello; il figlio Stefano venne infatti imprigionato dagli austriaci, e, una volta rilasciato, ritornò in Italia gravemente malato e con i postumi di una ferita. Durante la guerra, inoltre, le condizioni psichiche della moglie si aggravarono al punto da rendere inevitabile il ricovero in manicomio (1919).
Dopo la guerra, lo scrittore si immerse in un lavoro frenetico, dedicandosi soprattutto al teatro. Nel 1925 fondò la "Compagnia del teatro d'arte" con due grandissimi interpreti dell'arte pirandelliana: Marta Abba e Ruggero Ruggeri. Con questa compagnia cominciò a viaggiare per il mondo: le sue commedie vennero rappresentate anche nei teatri di Broadway. Nel 1929 gli venne conferito il titolo di Accademico d'Italia. Nel giro di un decennio arrivò ad essere il drammaturgo di maggior fama nel mondo, come testimonia il premio Nobel per la letteratura ricevuto nel 1934.
La morte e il testamento [modifica]
Grande appassionato di cinematografia, mentre assisteva a Cinecittà alle riprese di un film tratto dal suo "Il fu Mattia Pascal", si ammalò di polmonite. Aveva già subito due attacchi di cuore, e il suo corpo, ormai segnato dal tempo e dagli avvenimenti della vita, non sopportò oltre. Pirandello morì lasciando incompiuto un nuovo lavoro teatrale, I giganti della montagna.
Il regime fascista avrebbe voluto esequie di Stato. Vennero invece rispettate le sue volontà espresse nel testamento: "Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi"[5]. Per sua volontà il corpo fu cremato, per evitare postume consacrazioni cimiteriali e monumentali. Le sue ceneri furono sparse per il "Caos" (la sua tenuta, nell'omonima contrada).
Gli è stato dedicato un asteroide, 12369 Pirandello.[10]
Il pensiero [modifica]



Pirandello fotografato negli anni venti
« ... davanti agli occhi di una bestia crolla come un castello di carte qualunque sistema filosofico. »
(L. Pirandello, dai Foglietti[11])
Pirandello si occupò di questioni teoriche fin da giovane. Si avvicinò alle teorie dello psicologo Alfred Binet. Pubblicò nel 1908 i saggi Arte e Scienza e L'umorismo caratterizzati da un'esposizione di stile colloquiale, molto lontana dal consueto discorso filosofico. Le due opere sono espressione di un'unica maturazione artistica ed esistenziale che ha coinvolto lo scrittore siciliano all'inizio del '900 e che vede come centrale proprio la poetica dell'umorismo.
L'umorismo [modifica]
Nel saggio "L'umorismo" Pirandello distingue il comico dall'umorismo. [12]Il primo, definito come "avvertimento del contrario", nasce dal contrasto tra l'apparenza e la realtà. Nel saggio citato Pirandello ce ne fornisce un esempio:
« Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. "Avverto" che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica. Il comico è appunto un "avvertimento del contrario" »
(L. Pirandello, L'umorismo, Parte seconda [13])
L'umorismo, invece, nasce da una considerazione meno superficiale della situazione:
« Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente, s'inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico »
(L. Pirandello, L'umorismo, Parte seconda [13])
Quindi, mentre il comico genera quasi immediatamente la risata perché mostra subito la situazione evidentemente contraria a quella che dovrebbe normalmente essere, l'umorismo nasce da una più ponderata riflessione che genera una sorta di compassione da cui si origina un sorriso di comprensione. Nell'umorismo c'è il senso di un comune sentimento della fragilità umana da cui nasce un compatimento per le debolezze altrui che sono anche le proprie. L'umorismo è meno spietato del comico che giudica in maniera immediata.
« non ci fermiamo alle apparenze, ciò che inizialmente ci faceva ridere adesso ci farà tutt'al più sorridere. »
(Luigi Pirandello)
La crisi dell'io [modifica]
L'analisi dell'identità condotta da Pirandello lo portò a formulare la teoria della crisi dell'io. In un articolo del 1900 scrisse:
« Il nostro spirito consiste di frammenti, o meglio, di elementi distinti, più o meno in rapporto tra loro, i quali si possono disgregare e ricomporre in un nuovo aggregamento, così che ne risulti una nuova personalità, che pur fuori dalla coscienza dell'io normale, ha una propria coscienza a parte, indipendente, la quale si manifesta viva e in atto, oscurandosi la coscienza normale, o anche coesistendo con questa, nei casi di vero e proprio sdoppiamento dell'io. [...] Talché veramente può dirsi che due persone vivono, agiscono a un tempo, ciascuna per proprio conto, nel medesimo individuo. Con gli elementi del nostro io noi possiamo perciò comporre, costruire in noi stessi altre individualità, altri esseri con propria coscienza, con propria intelligenza, vivi e in atto. »
Paradossalmente, il solo modo per recuperare la propria identità è la follia, tema centrale in molte opere, come l'Enrico IV o come Il berretto a sonagli, nel quale Pirandello inserisce addirittura una ricetta per la pazzia: dire sempre la verità, la nuda e cruda e tagliente verità, infischiandosene dei riguardi e delle maniere, delle ipocrisie e delle convenzioni sociali. Questo comportamento porterà presto all'isolamento da parte della società e, agli occhi degli altri, alla pazzia.
Abbandonando le convenzioni sociali e morali l'uomo può ascoltare la proprià interiorità e vivere nel mondo secondo le proprie leggi, cala la maschera e percepisce se stesso e gli altri senza dover creare un personaggio, è semplicemente persona. Esemplare di tale concezione è l'evoluzione di Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila.
Il contrasto tra vita e forma [modifica]
Pirandello svolge una ricerca inesausta sull'identità della persona nei suoi aspetti più profondi, dai quali dipendono sia la concezione che ogni persona ha di sé, sia le relazioni che intrattiene con gli altri. Egli mette in evidenza il contrasto esistente tra la fluidità inarrestabile della vita, che è diversa di momento in momento e che presenta contemporaneamente aspetti molteplici ed anche contraddittori, e l'esigenza di cristallizzare quel flusso continuo in immagini certe, stabili, alle quali ancorare la conoscenza che si ha, o meglio si crede di avere, di sé e degli altri.
Questa riflessione, che si rispecchia nelle varie opere con accenti ora lievi ora gravi e tragici, è stata, ad opera soprattutto dello studioso Adriano Tilgher interpretata come un sistema filosofico basato sul contrasto tra la Vita e la Forma.
Il relativismo psicologico [modifica]
Dal contrasto tra la vita e la forma nasce il relativismo psicologico che si esprime in due sensi: orizzontale, ovvero nel rapporto interpersonale, e verticale, ovvero nel rapporto che una persona ha con se stessa.
Gli uomini nascono liberi ma il Caso interviene nella loro vita precludendo ogni loro scelta: l'uomo nasce in una società precostituita dove ad ognuno viene assegnata una parte secondo la quale deve comportarsi.
Ciascuno è obbligato a seguire il ruolo e le regole che la società impone, anche se l'io vorrebbe manifestarsi in modo diverso: solo per l'intervento del caso può accadere di liberarsi di una forma per assumerne un'altra, dalla quale non sarà più possibile liberarsi per tornare indietro, come accade al protagonista de Il fu Mattia Pascal.
L'uomo dunque non può capire né gli altri né tanto meno se stesso, poiché ognuno vive portando - consapevolmente o, più spesso, inconsapevolmente - una maschera dietro la quale si agita una moltitudine di personalità diverse e inconoscibili.
Queste riflessioni trovano la più esplicita manifestazione narrativa nel romanzo Uno, nessuno e centomila:
Uno: perché ogni persona crede di essere un individuo unico con caratteristiche particolari;
Centomila perché l'uomo ha, dietro la maschera, tante personalità quante sono le persone che ci giudicano;
Nessuno perché, paradossalmente, se l'uomo ha 100.000 personalità invero non ne possiede nessuna, nel continuo cambiare non è capace di fermarsi nel suo vero "io".
L'incomunicabilità [modifica]
Il relativismo conoscitivo e psicologico su cui si basa il pensiero di Pirandello si scontra con il conseguente problema dell' incomunicabilità tra gli uomini: dato che ogni persona ha un proprio modo di vedere la realtà e dunque una propria verità, non può esistere una comunicazione che abbia basi oggettive e condivise. L'incomunicabilità produce quindi un sentimento di solitudine ed esclusione dalla società e persino da se stessi, poiché proprio la crisi e frammentazione dell'io crea diversi io discordanti ("Il nostro spirito consiste di frammenti") che non risolvono la frammentazione se non facendo scoprire al personaggio di non essere poi nessuno.
Il personaggio di conseguenza avverte un sentimento di estraneità dalla vita che lo fa sentire forestiere della vita[14], nonostante la continua ricerca di un senso dell'esistenza e di un'identificazione di un proprio ruolo, che vada oltre la maschera, o le diverse e innumerevoli maschere, che compaiono al prospetto della società come delle persone più vicine.
Il tema dell'incomunicabilità è ben espresso dal personaggio di Vitangelo Moscarda del romanzo Uno, nessuno e centomila e dalla commedia Sei personaggi in cerca di autore.
La reazione al relativismo [modifica]
Reazione passiva [modifica]
L'uomo accetta la maschera, che lui stesso ha messo o con cui gli altri tendono a identificarlo. Ha provato sommessamente a mostrarsi per quello che lui crede di essere ma, incapace di ribellarsi o deluso dopo l'esperienza di vedersi attribuita una nuova maschera, si rassegna. Vive nell'infelicità, con la coscienza della frattura tra la vita che vorrebbe vivere e quella che gli altri gli fanno vivere per come essi lo vedono. Accetta alla fine passivamente il ruolo da recitare che gli si attribuisce sulla scena dell'esistenza. Questa è la reazione tipica delle persone più deboli come si può vedere nel romanzo Il fu Mattia Pascal.
Reazione ironico – umoristica [modifica]
Il soggetto non si rassegna alla sua maschera però accetta il suo ruolo con un atteggiamento ironico, aggressivo o umoristico. Ne fanno esempio varie opere di Pirandello come: Pensaci Giacomino, Il gioco delle parti e La patente. Il personaggio principale di quest'ultima opera, Rosario Chiàrchiaro, è un uomo cupo, vestito sempre in nero che si è fatto involontariamente la nomea di iettatore e per questo è sfuggito da tutti ed è rimasto senza lavoro. Il presunto iettatore non accetta l'identità che gli altri gli hanno attribuito ma comunque se ne serve. Va dal giudice e, poiché tutti sono convinti che sia un menagramo, pretende la patente di iettatore autorizzato. In questo modo avrà un nuovo lavoro: chi vuole evitare le disgrazie che promanano da lui dovrà pagare per allontanarlo. La maschera rimane ma almeno se ne ricava un vantaggio.
Reazione drammatica [modifica]
L'uomo vuole togliersi la maschera che gli è stata imposta e reagisce con disperazione. Non riesce a strapparsela ed allora se è così che lo vuole il mondo, egli sarà quello che gli altri credono di vedere in lui e non si fermerà nel mantenere questo suo atteggiamento sino alle ultime e drammatiche conseguenze. Si chiuderà in una solitudine disperata che lo porta al dramma, alla pazzia o al suicidio come accade ad esempio per i personaggi dei drammi Enrico IV, dei Sei personaggi in cerca d'autore e Il gioco delle parti, o al protagonista di Uno, nessuno e centomila.
Teatro [modifica]



Busto di Pirandello in un parco di Palermo
Pirandello divenne famoso proprio grazie al teatro che chiama teatro dello specchio, perché in esso viene raffigurata la vita vera, quella nuda, amara, senza la maschera dell'ipocrisia e delle convenienze sociali, di modo che lo spettatore si guardi come in uno specchio così come realmente è, e diventi migliore. Dalla critica viene definito come uno dei grandi drammaturghi del XX secolo. Scriverà moltissime opere, alcune della quali rielaborazioni delle sue stesse novelle, che vengono divise in base alla fase di maturazione dell'autore:
Prima fase - Il teatro siciliano
Seconda fase - Il teatro umoristico
Terza fase - Il teatro nel teatro (metateatro)
Il teatro dei miti
Generalmente si attribuisce l'interesse di Pirandello al teatro nella maturità dei suoi anni, ma alcuni precedenti mostrano come tale convinzione necessiti di una rivalutazione: in gioventù, infatti, Pirandello compose alcuni lavori teatrali andati purtroppo perduti poiché da lui stesso bruciati (tra gli altri, il copione del perduto Gli uccelli dell'alto). In una lettera del 4 dicembre 1887, indirizzata alla famiglia, si legge:
« Oh, il teatro drammatico! Io lo conquisterò. Io non posso penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene. Quell'aria pesante chi vi si respira, m'ubriaca: e sempre a metà della rappresentazione io mi sento preso dalla febbre, e brucio. È la vecchia passione chi mi vi trascina, e non vi entro mai solo, ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia mente, persone che si agitano in un centro d'azione, non ancora fermato, uomini e donne da dramma e da commedia, viventi nel mio cervello, e che vorrebbero d'un subito saltare sul palcoscenico. Spesso mi accade di non vedere e di non ascoltare quello che veramente si rappresenta, ma di vedere e ascoltare le scene che sono nella mia mente: è una strana allucinazione che svanisce ad ogni scoppio di applausi, e che potrebbe farmi ammattire dietro uno scoppio di fischi! »
(Luigi Pirandello, da una lettera ai familiari del 4 dicembre 1887 [15])
È in questa dimensione che si parla di "teatro mentale" [16]: lo spettacolo non è subito passivamente ma serve come pretesto per dar voce ai "fantasmi" che popolano la mente dell'autore (nella prefazione ai Sei personaggi in cerca d'autore Pirandello chiarirà di come la Fantasia prenda possesso della sua mente per presentargli personaggi che vogliono vivere, senza che lui li cerchi).
In un'altra missiva, spedita da Roma e datata 7 gennaio 1888, Pirandello sostiene che la scena italiana gli appare decadente:
« Vado spesso in teatro, e mi diverto e me la rido in veder la scena italiana caduta tanto in basso, e fatta sgualdrinella isterica e noiosa »
(Luigi Pirandello, da una lettera ai familiari del 7 gennaio 1888 [17])
La delusione per non essere riuscito a far rappresentare i primi lavori lo distoglie inizialmente dal teatro, facendolo concentrare sulla produzione novellistica e romanziera.
Nel 1907 pubblica l'importante saggio Illustratori, attori, traduttori dove esprime le sue idee, ancora negative, sull'esecuzione del lavoro dell'attore nel lavoro teatrale: questi è infatti visto come un mero traduttore dell'idea drammaturgica dell'autore, il quale trova dunque un filtro al messaggio che intende comunicare al pubblico. Il teatro viene poi definito da Pirandello come un'arte "impossibile", perché "patisce le condizioni del suo specifico anfibio" [18]: un tradimento della scrittura teatrale, che ha di contro "il cattivo regime dei mezzi rappresentativi, appartenenti alla dimensione adultera dell'eco" [19].
È in questo momento che Pirandello si distacca dalla lezione positivista e, presa diretta coscienza dell'impossibilità della rappresentazione scenica del "vero" oggettivo, ricerca nella produzione drammaturgica di scavare l'essenza delle cose per scoprire una verità altra (come poi spiegò nel saggio L'Umorismo con il sentimento del contrario).
Il 6 ottobre 1924 fonda la compagnia del Teatro d'Arte di Roma con sede al Teatro Odescalchi con la collaborazione di altri artisti: il figlio Stefano Pirandello, Orio Vergani, Claudio Argentieri, Antonio Beltramelli, Giovani Cavicchioli, Maria Letizia Celli, Pasquale Cantarella, Lamberto Picasso, Renzo Rendi, Massimo Bontempelli e Giuseppe Prezzolini[20]: tra gli attori più importanti della compagnia figurano Marta Abba, Lamberto Picasso, Maria Letizia Celli, Ruggero Ruggeri. La compagnia, il cui primo allestimento risale al 2 aprile 1925 con Sagra del signore della nave dello stesso Pirandello e Gli dei della montagna di Lord Dunsany, ebbe però vita breve: i gravosi costi degli allestimenti, che non riuscivano ad essere coperti dagli introiti del teatro semivuoto[21] costrinsero il gruppo, dopo solo due mesi dalla nascita, a rinunciare alla sede del Teatro Odescalchi. Per risparmiare sugli allestimenti la compagnia si produsse prima in numerose tournée estere, poi fu costretta allo scioglimento definitivo, avvenuto a Viareggio nell'agosto del 1928.